La presa di parola di un filosofo indignato

EDGAR MORIN Una voce nel tempo della cronaca

EDGAR MORIN Una voce nel tempo della cronaca

Ogni creazione è inscritta da sempre nell’ordine dell’invisibile, dell’inconcepito, dell’aperto, dell’improbabile. Del rischio. Se ci limitassimo ai «programmi» o al piano delle previsioni, sul terreno apparentemente fermo e sicuro della diagnosi resteremmo però disarmati dinanzi all’imprevisto e imprevedibile irrompere di cose ed eventi. E persino di quelle soggettività che, troppo presto, avevamo date per dissolte o disperse. Diagnosi e previsioni hanno una struttura chiusa, quasi sempre – e visti i tempi quasi inevitabilmente – innervata di pessimismo. Non si può rimanere inerti, ha ragione il «moriniano» Stéphane Hessel, che con il suo Indignez-vous (la traduzione italiana è in questi giorni in libreria, per Add edizioni, pp. 4, euro 5) in Francia ha da poco raggiunto il milione di copie vendute. Ma al tempo stesso, gli ha fatto eco proprio Edgar Morin nelle trecento e passa pagine del suo recentissimo La Voie (pp. 320, euro 19), edito da Fayard, all’ottimismo della volontà fa da controcanto il pianto di una ragione che, ancora orfana del Ventesimo secolo, non può non registrare sia l’impasse di certo pensiero critico, sia l’inquietante affermazione di un paradigma banale, rozzo, ma estremamente efficace, soprattuto sul piano pratico: quello del pensiero accusatorio che incessantemente si accompagna a un pensiero di stampo giustificatorio. Il vuoto dell’opinione pubblica In Italia, gli odierni seguaci di Giannini e del suo sempre redivivo «uomo qualunque» e in Francia quelli del suo omologo Pierre Poujade hanno e avranno vita facile nel cavalcare il diffuso sentimento di rancorosa indignazione, trasformando un sentimento nobile – l’indignazione, appunto – in una tristissima giaculatoria degna dei peggiori azzeccagarbugli. La favola della lotta tra il bene e il male, osserva a questo proposito Morin, ha oggi coloriture basse, visto che la dimensione mitica o religiosa in questo neo-manicheismo è stata scalzata da quella giornalistica, la cui mediazione supplisce a un vuoto costante di pensiero, ma impone pure scellerati patti col diavolo. Nessuno sembra avere meditato a fondo quanto T. S. Eliot scriveva nei versi della Rocca. Versi ben altrimenti noti che Morin non manca di richiamare: «dov’è la saggezza che abbiamo perso in conoscenza? Dov’è la conoscenza che abbiamo perso in informazione?» Delegando ogni barlume di partecipazione a un pensiero politico inefficace persino di venire ai ferri corti con le premesse cognitive e logiche che ne presiedono la produzione, ci siamo forse consegnati a quello che già Friedrich Nietzsche chiamava «il tempo della cronaca», dove rapidità, assenza di memoria, iperconsumo e critica da roditori hanno sostituito il lavoro paziente della talpa. Talpa un tempo forte – è sempre il filosofo tedesco a parlare – di quella «lentezza carica di dolcezza» che ha sempre accompagnato e presieduto il comprendere. E magari porta a pure a indignarsi. Realtà multidimensionale Ma l’indignazione, chiarisce Morin ne La Voie, è passione lieta solo se assume il senso di una rottura, di uno shock etico inteso come presa di parola che apre alla presa di coscienza di quanto inadeguati siano i nostri strumenti e le nostre pratiche, dinanzi a una profondissima crisi del pensare e dell’agire politico. Una crisi che, in una bella intervista risalente al 2001 e raccolta da Sergio Manghi in appendice a Il gioco della verità e dell’errore (Erickson, 2009), Morin rimarcava essere stata poco assimilata ed elaborata, soprattutto negli effetti perversi derivati «dall’antinomia tra il carattere frammentato e suddiviso delle conoscenze e il carattere trasversale, globale e multidimensionale delle realtà e dei problemi». Effetti perversi, questi, di una intossicazione intellettuale nella quale, e non da oggi, il sociologo francese ha individuato una follia contagiosa e specifica, quella della «frammentazione». Per questo, osserva ora Morin, bisognerebbe scommettere sulla speranza. Di più, bisognerebbe riattivarla, «régénérer l’espérance», rigenerarla come recita il sottotitolo italiano della recente traduzione di Ma Gauche. Incessantemente. Perché incessante è la domanda che, al termine di ogni analisi, anche della più lucida e autocritica, si pone: «che fare»? CONTINUA|PAGINA12 La speranza è proprio quel «che fare», con qualcosa di meno e qualcosa di più. È un fare imprevisto, la via d’uscita da una saturazione, la riattivazione di quegli istanti di delirio senza i quali non è possibile comprendere come si sia dinanzi a un «metalivello, che deriva dal modo di pensare che ci è stato inculcato, quello che separa, compartimenta, rende incapaci di contestualizzare e globalizzare». Proprio per questa incapacità non sortiscono effetto nemmeno le pratiche (e le annesse retoriche) sulla memoria e i suoi doveri. Perché se salvaguardano – meritoriamente, per carità – frammenti di passato, è tutto il contesto ad essere stato dissolto. Che farsene, dunque, di un passato «svincolato da ciò che è essenziale per qualsiasi comprensione, ossia il contesto»? Che futuro «sperare», se anche il futuro è visto come un insieme di vie di fuga «chiuse» proprio dalla mancanza di contesto? Speranza, per Morin, è ciò che si apre al rischio, all’aperto, all’improbabile. Per questo è rischiosa e per questo non ha «programmi». Due immagini sembrano racchiuderla, nel pensiero del sociologo francese: la breccia e la via. Alla breccia, faceva riferimento un lavoro del Sessantotto, e relativo al Maggio, scritto con Cornelius Castoriadis e Claude Lefort (Mai 1968: la brèche, Fayard, 1968). Alla via (voie) Morin rimanda nell’omonimo La Voie e nei saggi raccolti a cura di Riccardo Mazzeo nella Mia sinistra. La vera speranza, precisa Morin, non ha certezze. Non è «speranza nel migliore dei mondi possibili, ma in un mondo migliore». Proprio per questo «non è più sufficiente denunciare. Adesso è venuto il tempo di enunciare. Non basta più ricordare l’urgenza. Bisogna anche saper iniziare a definire vie che possono condurre alla Via». Servono non uno, ma una moltitudine di nuovi principi-speranza. Perché l’inizio, ogni inizio, scriveva Heidegger, è da sempre lì, davanti e non dietro di noi.

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