I giorni dell’ira

La democrazia ha sempre cercato di fare i conti con questo sentimento che muove gli spossessati contro il potere. Nella modernità  è però prevalso l’invito a cercare una politica del giusto mezzo che tenga ai margini chi dissente. Oggi si preferisce addomesticarlo con la gestione del capitale umano e la meritocrazia. Ma dopo il fallimento del socialismo reale occorre di nuovo partire da questa passione per pensare la rivoluzione

La democrazia ha sempre cercato di fare i conti con questo sentimento che muove gli spossessati contro il potere. Nella modernità  è però prevalso l’invito a cercare una politica del giusto mezzo che tenga ai margini chi dissente. Oggi si preferisce addomesticarlo con la gestione del capitale umano e la meritocrazia. Ma dopo il fallimento del socialismo reale occorre di nuovo partire da questa passione per pensare la rivoluzione

«Ormai hanno già sfasciato tutto, cassette delle lettere, porte e scale. Il policlinico, dove curano gratis i loro fratelli e sorelle più piccoli, lo hanno demolito». Lucido nel suo sconcerto rispetto alle prospettive della guerra civile che da trent’anni va in scena nelle banlieue francesi, Hans Magnus Enzensberger riportava in un libro pubblicato agli inizi degli anni Novanta (Prospettive sulla guerra civile, Einaudi) i commenti di un assistente sociale davanti alla violenza autistica degli immigrati di seconda generazione di origine araba o africana contro le strutture di primo soccorso che governano la marginalità sociale.
In queste cupe ammissioni di impotenza si riconosce un’«internazionale dei misantropi», sarcastica definizione con la quale Peter Sloterdijk ha descritto in Ira e tempo (Meltemi, pp. 283, euro 21,50) la muta degli uomini nauseati che sopravvive ai margini e nelle pieghe delle società del precariato di massa. Notte dopo notte, e di insorgenza in insorgenza, questi misantropi declassati si disgregano in isolati stordimenti, colpiscono l’ordine costituito con rigurgiti di rabbia il cui unico effetto è quello di rafforzare l’alienazione quotidiana. Nelle scuole, negli uffici, nelle attività illegali necessarie alla sopravvivenza, ecco spalancarsi una terra di mezzo dove la pauperizzazione della classe media s’intreccia con la disperazione del sottoproletariato metropolitano.
Da quando è fallita quella che Sloderijk chiama la «banca dell’ira» del comunismo, il magnete che ha attratto per più di un secolo le energie timotiche mondiali contro il capitalismo (dal greco thymos, l’ira o furore degli eroi omerici), le energie sembrano disperdersi in riti collettivi poco più che simbolici. Nessun ideale canalizza il furore distruttivo delle masse spossessate in una violenza civilizzata. Una volta estinto il dispositivo che ha trasformato la guerra sociale in guerra di classe, sembra che non ci sia più limite alla psicopatologia delle passioni tristi che svuota come un tarlo l’anima, trasformando l’ira in risentimento o recriminazione.
La marea dell’umor nero
Gli unici che per Sloterdijk avrebbero accarezzato il pelo della bestia sono gli islamici fondamentalisti i quali, dopo l’11 settembre, hanno inaugurato una «banca dell’ira regionale» capace di ricondurre i furiosi al culto della trascendenza teologica. Una previsione di corto respiro, smentita dalle rivoluzioni tunisine e egiziane che hanno sospeso l’ipoteca fondamentalista sull’ira, canalizzandola verso una domanda di libertà e democrazia. In questa ed altre ricostruzioni è molto forte la tentazione di declinare l’ira come un veleno iniettato da un genio maligno in un organismo che tende naturalmente ad un equilibrato governo dell’umor nero. È la posizione di Sofocle per il quale l’ira è la ragione dell’accecamento di Edipo che uccide il padre in un quadrivio per una questione di precedenza tra carri.
Ma la passione furente è qualcosa in più della rabbia che si prova ad un semaforo. È una passione civile ed è il «nervo dell’anima», scrive Platone che distingue l’ira giusta da quella ingiusta. L’animo irascibile è thymos gennaios, è nobile quando lotta contro l’ingiustizia. Esso non è prerogativa esclusiva dei «Re-filosofi», ma investe quella parte della città popolata dalla classe dei guardiani. Solo quando entra nel ristretto perimetro dei governanti (e degli intellettuali), l’ira diventa degna e civile. Colui che più di ogni altro è riuscito in questa impresa è stato Aristotele. Nell’Etica nicomachea l’ira è il desiderio di vendetta accompagnata dal dolore per una palese offesa arrecata alla propria persona o a qualcuno a noi legato. Non vendicarsi dell’offesa ricevuta crea vergogna. Sopportare l’oltraggio è un atteggiamento da schiavi.
L’ira è inoltre un fattore di equilibrio tra il governo di sé e quello degli altri, scrive Remo Bodei (Ira. La passione furente, Il Mulino, pp. 135, euro 14). Le correnti cristiane che si sono riconosciute in Paolo e in Agostino, fino alla Scolastica e a Dante, vedono nella «santa ira» di Gesù contro i mercanti nel Tempio il tentativo di costringere gli uomini ad entrare in contatto con se stessi, sollevandosi da una peccaminosa indegnità. «Adiratevi e non peccate – ha scritto Paolo – il sole non tramonti sul vostro sdegno». Perché questo sia possibile è necessario un lungo addestramento come si fa per i cavalli imbizzarriti. Si inizia da piccoli, con l’educazione al linguaggio, l’imposizione di una postura corporea, accedendo infine all’obbedienza ad un principio morale o teologico.
Anche in questo modello resta tuttavia un non-detto. L’ira è una passione fisiologica ed individuale che facilita la meditazione sulla trasformazione del mondo, e non solo di se stessi, ma resta una prerogativa riservata all’uomo (maschio e bianco) che coltiva la mitezza come ideologia della medietà tra la furia e la depressione. La marea iraconda viene drenata dalla diga del giusto mezzo, cioè dall’innata moderazione delle istituzioni democratiche che devono sedare l’ingiustizia. Non si contano, infatti, gli alambicchi psicologici, sociali e giuridici attraverso i quali la democrazia corregge i propri errori e redistribuisce una quota minima di giustizia agli scontenti. Ma cosa succede quando sono queste stesse istituzioni ad incarnare il torto sulla terra? Chi può dare voce al dissenso quando è la stessa democrazia ad essere ingiusta?
L’odio della democrazia
È difficile trovare una risposta visto che sin da Platone il popolo, gli schiavi e i diversi, gli stranieri si sono visti negare il diritto alla partecipazione agli affari della polis. Persino Spinoza ha negato la dignità dell’ira alle donne. Gli esclusi dalla democrazia sono tutti come Medea, la donna posseduta dagli immansueta ingenia dei popoli incolti dotati di temperamento selvaggio e intrattabile. In un perverso gioco di specchi, la democrazia preferisce non dare voce al suo indocile ingegno imponendo al contrario una rigida disciplina che la rende mite in superficie e crudelmente diseguale nel sottosuolo.
Davanti all’odio feroce per il popolo, come per tutti i soggetti che la democrazia bandisce incurante dei diritti fondamentali che dovrebbe garantire, sono ancora in molti a coltivare la fede in un galateo delle passioni capace di bruciare il risentimento in attesa che le porte della città si aprano per tutti. Il conato che strozza il misantropo, l’odio che zittisce i declassati, l’ira degli esclusi e dei banditi non troveranno mai pace attorno al banchetto delle buone maniere, della valorizzazione del capitale umano e dell’ineffabile meritocrazia che viene ammannita nella scuola e nell’università italiane.
Le rivoluzioni moderne hanno dato una forma alla grandiosa indignazione contro questa follia. Non di bestiale competitività, o di ipocrita comprensione, hanno bisogno per vivere gli immansueta ingenia, ma di una vigorosa redistribuzione della ricchezza e di innovazione intellettuale e produttiva. Ma, in tutta evidenza, queste rivoluzioni non sono riuscite a tirare le briglie al veleno del risentimento, né alla burocrazia della violenza. La principale vittima è stato il comunismo, l’ultimo vascello che ha navigato nell’oceano dell’ira. Per seguire la direzione della sua deriva è senz’altro preferibile seguire l’analisi che Ètienne Balibar ha sviluppato nel recente Violence et civilité (Gallimard, pp. 417, euro 35). Il comunismo, per il filosofo francese, è stato il tentativo di «civilizzare» l’ira del popolo e la sua violenza.
Walter Benjamin e Rosa Luxemburg, vittime anch’essi di un’atroce violenza, hanno forgiato un’attitudine che non riduce l’ira ad una forma logica o, peggio, biografica. Essa è stata considerata invece il dispositivo politico attorno al quale costruire una più ampia dialettica tra la violenza dei dominanti e l’anti-violenza delle pratiche rivoluzionarie. Lo Stato e il mercato non sono gli unici agenti della violenza contro la quale il popolo moltiplica mimeticamente i suoi effetti distruttivi. È piuttosto il popolo a creare un contro-veleno attraverso una serie di strategie di emancipazione indipendenti dalle strutture istituzionali in cui anch’esso vive.
L’appetito della bestia
«Prima di sognare di fare educare il popolo dallo Stato – ha scritto Marx nella Critica del programma di Gotha del 1875 – non converrebbe pensare al modo in cui il popolo potrebbe rieducare vigorosamente lo Stato?». Ispirandosi alla sottigliezza di questo rovesciamento dialettico, Antonio Gramsci – e con lui il marxismo contemporaneo da Ernesto Laclau sino a Antonio Negri – ha chiarito che una politica rivoluzionaria non è semplicemente l’esercizio di una contro-violenza di classe, ma l’invenzione di una nuova «civiltà» nella quale il dissidio politico viene affrontato partendo «dal basso», cioè dal pluralismo costitutivo della società.
È vero, nessuna di queste soluzioni sembra avere soddisfatto l’appetito della bestia. Chi ha a cuore una nuova «civiltà dell’ira» dovrebbe quindi invitare tanto gli uomini, quanto le donne, a fare personalmente esperienza dei suoi effetti ambivalenti. Se così fosse, l’ira non verrebbe più considerata uno strumento politicamente neutro che gli oppressi scagliano contro lo Stato, come credeva anche Lenin. Al contrario, entrerebbe a far parte di una politica che permette agli oppressi di ribellarsi contro la «servitù volontaria» e la «barbarie» di cui sono i principali attori.
Per questa ragione non bastano le insurrezioni popolari per fare una rivoluzione. Serve una riflessione di secondo grado sulle aporie del programma di emancipazione universale. Ed è proprio sulla rottura tra rivolta e rivoluzione che la tradizione marxista ha perso colpi. Estinta questa tradizione non è tuttavia detto, conclude Balibar, che le sue premesse politiche non valgano ancora oggi. Rivoluzione è sottrarsi alle antinomie del potere e, di conseguenza, a quella tradizione sacrificale che risponde alla violenza con un’analoga contro-violenza. Per farlo, però, non bisogna accettare di restare nella posizione sociale imposta dal potere. Meglio allora cambiare posizione con gli altri che condividono lo stesso desiderio. Diventare attivi quando invece ci vorrebbero passivi e, viceversa, sottraendosi ad un futuro già scritto. Chi ha detto che non stia accadendo proprio questo nell’area euro-mediterranea, a due anni dall’inizio della crisi?

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