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Gli aerei di Gheddafi bombardano strage di manifestanti a Tripoli

 L’inviato all’Onu: “È genocidio”. Giallo sul Colonnello: “In viaggio per Caracas”, poi la smentita

 L’inviato all’Onu: “È genocidio”. Giallo sul Colonnello: “In viaggio per Caracas”, poi la smentita

Poi, con gli occhi che gli brillano, aggiunge: «Fino a Bengasi la strada è libera, perché i cecchini di Gheddafi li abbiamo ammazzati tutti. E stia tranquillo, li abbiamo anche seppelliti. Sentirà solo il profumo della libertà». La rivoluzione libica è ancora in divenire, ma nella regione orientale del Paese, dove i fremiti della vittoria si mischiano alle lacrime per gli insorti uccisi, i nuovi padroni ostentano sicurezza. Il loro orgoglio, la loro gioia sono contagiosi.

Eppure la giornata di ieri è stata forse la più cruenta e la più concitata dall´inizio della rivoluzione libica. A Tripoli, i caccia militari dell´aviazione avrebbero compiuto raid contro i manifestanti provocando, secondo Al Jazeera, almeno 250 vittime. Gli aerei libici hanno sorvolato e bombardato le vecchie vie della città dove erano in corso le proteste anti-governative. Due aviatori a bordo di Mirage non hanno però ubbidito agli ordini dell´esercito e sono atterrati a Malta, dove hanno chiesto asilo politico. «Ci siamo rifiutati di bombardare la folla», avrebbero detto una volta scesi dai loro caccia. I vuoti si allargano anche nei ranghi del regime: anche il ministro della Giustizia Mustafa Mohamed Abud al Jeleil ha lasciato il suo incarico disgustato «dall´uso eccessivo della violenza». 
Non sono disordini quelli che agitano la Jamahiriya, è la resa dei conti con l´oppressione, è quasi la guerra civile. Le minacce proferite due giorni fa in tv da Seif al Islam, il figlio “moderato” del leader, sono fallite: i libici vogliono liberarsi del tiranno, stanno pagando con il sangue, sono pronti ad andare avanti.
Sempre a Tripoli, altre testimonianze parlano dei massacri compiuti dai mercenari di Gheddafi, i quali avrebbero aperto indiscriminatamente il fuoco sui dimostranti uccidendo anche molte donne. Il bilancio ufficioso parla invece di quasi 300 morti a Bengasi, caduta in mano ai rivoltosi, insieme ad Al Baida e ad altre città, mentre diverse unità dell´esercito si sono unite alla protesta.
Davanti alle stragi, la rabbia degli insorti divampa: nella capitale le sedi delle tv e radio di stato, Jamahiriya 2 e Al Shababia, sono state date alle fiamme. Il fuoco ha consumato anche altri uffici governativi, il ministero dell´Interno e il palazzo del Popolo, sede del Parlamento, oltre alle sedi degli odiati Comitati rivoluzionari, le squadracce di Gheddafi. In serata, viene annunciata una concentrazione di dimostranti nella piazza Verde, cuore della capitale: di fatto, è una nuova prova di forza proprio su Tripoli. 
Il regime però non cede. Il Colonnello non ascolta nessuno, né i ministri degli Esteri dell´Unione europea che condannano la brutalità e chiedono la fine delle stragi, né il segretario delle Nazioni Unite Ban Ki-moon che lo chiama personalmente pregandolo di mettere fine alla carneficina. L´uomo che ha governato per 41 anni ignora persino l´appello accorato di Amr Moussa, segretario della Lega araba. E persino il viceambasciatore libico all´Onu Ibrahim Dabbashi invoca l´intervento internazionale contro quello che definisce «un genocidio attuato dal regime di Tripoli». Non vuole mollare Il Colonnello. Non è vero che sia in fuga verso l´ospitale Venezuela di Hugo Chavez, come aveva annunciato il ministro degli Esteri britannico William Hague: smentiscono a Caracas, anche l´Ue esclude che la notizia abbia fondamento. 
Passato il confine a Musaid, la Libia comincia con una sterminata fila di camion fermi che s´è andata formando nei giorni di chiusura della frontiera. La fiancheggiamo per un paio di chilometri, percorrendo a piedi la strada che unisce il paese all´Egitto. Nella cittadina di Umm Sa´ad, poche luci sono ancora accese. Le case hanno le finestre sbarrate. C´è un cane randagio che grufola tra i rifiuti. Sono le dieci di sera, piove. Il solo locale ancora aperto è una bettola di una decina di tavoli. I clienti hanno finito di cenare e fumano con lo sguardo incollato alla televisione. Ogni volta che questa trasmette le immagini degli scontri di piazza, ammutoliscono tutti in un silenzio luttuoso. Quando invece sullo schermo appaiono figure legate al regime di Gheddafi, come lo stesso figlio del Colonnello, i clienti si animano e cominciano a inveire con rabbia.
Originario di Bengasi, Ahmed è proprietario di uno dei camion parcheggiati lungo il confine. È macilento e ha i capelli unti di sebo. Dice: «Sarà dura, ma ce la faremo. Dopo Bengasi, cadrà anche Tripoli. È bastata una scintilla, e tutto ha preso fuoco. Adesso arde un falò gigantesco e sarà molto difficile spegnerlo. Spero solo che tra le fiamme bruci anche il Raìs».
S´avvicina un uomo anziano, d´aspetto signorile. Si chiama Osman, è un funzionario di banca. In perfetto italiano ci chiede se vogliamo incontrare un suo cugino ferito tre giorni fa a Bengasi, ma spedito qui perché gli ospedali sono pieni di persone che stanno molto peggio di lui. Osman stenta a credere quanto accade in questi giorni in Libia. «Vuole sapere l´errore che ha compiuto Gheddafi? Quello di reagire con la ferocia di un animale ferito. Gli insorti hanno subito intuito che lui aveva paura. E sebbene nessuno di loro avesse mai manifestato per le strade il proprio dissenso, stanno coraggiosamente affrontando i gas lacrimogeni, le pallottole, perfino i razzi».
A casa, il cugino ferito dorme. Proponiamo di tornare domani. I famigliari insistono. Pochi minuti dopo il loro martire entra in soggiorno. Ha un braccio fasciato e parte del viso coperta da un esteso ematoma. «Sembrava un film», esordisce. «Sì, un film di guerra, con i soldati che avanzavano verso di noi sparando ad altezza d´uomo. Attorno a me, i manifestanti cadevano come birilli. Io sono stato fortunato. Un proiettile mi ha colpito, ma solo di striscio». 
Sulla strada del ritorno verso l´Egitto incrociamo poche auto. I muri di molti edifici urlano la stessa scritta in arabo. Chiediamo spiegazioni. «Libertà!», traduce Osman.

 

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