Europa-Maghreb, la democrazia può fare sponda

Le cronache degli ultimi giorni ci consegnano quella che, nella stampa italiana e nella retorica securitaria degli apparati di polizia, viene presentata come una «catastrofe umanitaria». Sono migliaia i giovani e i giovanissimi migranti, in gran parte tunisini, che hanno varcato il blue border del canale di Sicilia.

Le cronache degli ultimi giorni ci consegnano quella che, nella stampa italiana e nella retorica securitaria degli apparati di polizia, viene presentata come una «catastrofe umanitaria». Sono migliaia i giovani e i giovanissimi migranti, in gran parte tunisini, che hanno varcato il blue border del canale di Sicilia.

Giovani e giovanissimi per i quali l’esplosione del Maghreb, il processo costituente che ha travolto sistemi di potere bloccati, corrotti, insediati e foraggiati dalle potenze occidentali come guardiani degli equilibri strategici dell’area mediorientale, rappresenta l’occasione più immediata di dare concretezza all’idea di libertà. 
Di che cosa ci parla l’esplosione a catena dei paesi del Maghreb e del mondo arabo dell’ultimo mese se non di un enorme, straordinario processo di soggettivazione, del protagonismo generazionale di giovani uomini e donne, di universitari, precari e disoccupati altamente scolarizzati? È questa composizione sociale, in cui il lavoro cognitivo in formazione si incontra con i poveri degli slum, a erompere come incontenibile nei canali che una società soffocante e patriarcale, arcaicamente moderna, e cioè fatta di una modernità sviluppista, che ha bisogno di fissare parte del paese nella povertà e nella miseria, per poter giustificare autoritarismo e dirigismo statale. Di che cosa ci parla dunque l’immediato prendere il mare e il largo da tutto ciò che è stato vissuto per decenni come un incubo, se non del più immediato risultato di una riappropriazione democratica ed egualitaria del diritto di libero movimento? 
Il crollo del Muro di Berlino produsse dinamiche simili. E non era certo la prima volta che la mobilità si presentava strettamente intrecciata alla democrazia, qualificandone immediatamente il contenuto di libertà. Lo scrivevamo fin dal primo libro di UniNomade, Guerra e democrazia: l’esercizio del diritto di fuga e le pratiche di mobilità in cui esso si esprime «sono stati uno degli elementi fondamentali in cui si è storicamente espressa l’eccedenza del movimento democratico rispetto alle forme istituzionali in cui lo stato moderno ha tentato di organizzarlo e di governarlo». Pensavamo, giusto per fare un paio di esempi, all’underground railroad, alle fughe degli schiavi dalle piantagioni del Sud degli Stati uniti, alle comunità ribelli dei maroons nelle Americhe e nell’Asia sud-orientale, ai contadini europei in fuga dalla gleba e dalla «servitù della zolla», verso l’aria libera delle città. Ma pensavamo anche, ovviamente, alle migrazioni contemporanee. 
Non vi sono certo ragioni perché le cose stiano diversamente oggi, di fronte a rivolte che si mostrano “globali” fin nei più minuti comportamenti, negli immaginari, nei linguaggi e negli “stili” di comunicazione che le caratterizzano. Vi è un nesso profondo tra il movimento di democratizzazione che attraversa il Maghreb, la potenza costituente e travolgente del desiderio di libertà che spinge moltitudini immense allo scontro con il potere e le pratiche di mobilità che sfidano i dispositivi europei di controllo delle migrazioni nel Mediterraneo: sarebbe bene vedere questo nesso, non altro, riflesso in quanto sta avvenendo a Lampedusa. 
È oggi il muro dei dispositivi di blocco e di interdizione della migrazione, di cui i paesi della sponda sud del Mediterraneo contrattano da anni intensità e modelli con la Commissione europea e con singoli paesi membri della Ue, quello che minaccia di crollare con le gerarchie e con i palazzi del potere. È un’intera stratificazione di poteri, di rendite di posizione acquisite con le fedeltà internazionali, di legami bilaterali e di concorrenze locali, quella che le rivolte del Maghreb e del mondo arabo – dalla Tunisia all’Egitto, dall’Algeria allo Yemen, ai paesi nei quali essa si estenderà, con risultati costituenti non dissimili, per rilevanza, a quanto accaduto in America Latina nello scorso decennio – mettono almeno potenzialmente in discussione.
Se quella che si sta proponendo a Lampedusa è un’ «emergenza biblica» è perché quella che si afferma è una matrice assoluta, esodante, irrapresentabile e non imbrigliabile, della libertà e della soggettivazione. Lampedusa è in questi giorni uno specchio in cui questa matrice si fa nitidamente, per quanto drammaticamente, visibile: una matrice che incide il proprio segno sulla radicalità di un processo di democratizzazione che, con la stessa intensità, occupa le piazze e inventa le proprie pratiche, spariglia le fila del discorso pubblico e ne destituisce i protagonisti istituzionali, spalanca la possibilità della riappropriazione di un futuro con dinamiche non dissimili da quelle delle lotte studentesche che stanno attraversando l’Europa.
In un caso come nell’altro, quella che si mette in movimento è una generazione immobilizzata e impoverita dai difensori della rendita, una generazione che si indebita per attraversare il mare o le strette di un processo formativo, una generazione che si specchia tra le due sponde del Mediterraneo negli strumenti che usa per comunicare, conoscere e produrre. Una generazione segnata dall’eccedenza e dalla dismisura tra ciò che è in grado di fare e ciò che le viene riconosciuto e concesso.
«Democrazia» per i giovani tunisini, così come per gli studenti di Londra, non significa ottenere rappresentanza o trovare accoglienza per più che legittime aspirazioni di riconoscimento. Significa piuttosto diritto al futuro, alla mobilità, all’autodeterminazione. Significa apertura di uno spazio al cui interno un’alternativa di sistema alla miseria dell’esistente possa essere costruita.
Quella sui barconi che approdano a Lampedusa non è un’umanità disperata; non lo è stata mai, ma tanto meno lo è ora. Quella che si mette in viaggio, non appena l’insorgenza determina lo strappo della cappa di piombo di decenni di autoritarismo postcoloniale, è un’umanità che assegna un significato preciso alla nozione di democrazia. Sconfinamento, libertà, soggettivazione. Il «segno caratterizzante», avrebbe forse detto Kant, di una nuova età del mondo. Un’età in cui «restare» è parola vuota, o peggio parola che evoca la violenza dei pattugliamenti armati dei confini, l’arbitrio dei visti e della polizia di frontiera, se non è prima di tutto sostanziata dalla libertà di movimento; e in cui «partire» significa rivendicare l’effetto costituente, la trasformazione, che il protagonismo della libertà nelle piazze, induce sui processi di soggettivazione. Ben al di là delle biografie irriducibilmente singolari delle donne e degli uomini che attraversano in questi giorni il canale di Sicilia, il loro movimento ci parla in fondo di un processo di trasformazione che non può rimanere confinato negli spazi istituzionali dati; che tracima anzi continuamente, non solo nel mondo arabo ma verso l’Europa.
Quello che i giovani tunisini cercano a Lampedusa non è un rifugio né un asilo. Quello che cercano è un effetto di sponda: la possibilità di rilanciare in avanti l’insorgenza di Tunisi come riappropriazione della libertà. Il lungo applauso, la commozione delle centinaia di attivisti dei movimenti europei che nei giorni scorsi, all’assemblea parigina sulle lotte nel mondo della formazione in Europa, ha salutato l’intervento di una studentessa tunisina che raccontava la rivoluzione ci fa pensare che quell’effetto di sponda si possa produrre.

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