L’incendio rivoluzionario del Maghreb, dalla Tunisia all’Algeria, si è propagato ad Oriente, ha travolto l’ultradecennale dittatura di Mubarak e insidia ormai i regimi arabi conservatori e autoritari.
L’incendio rivoluzionario del Maghreb, dalla Tunisia all’Algeria, si è propagato ad Oriente, ha travolto l’ultradecennale dittatura di Mubarak e insidia ormai i regimi arabi conservatori e autoritari.
La forma istituzionale e politica che prenderà l´Egitto preoccupa americani ed europei: questi, a poche bracciate dalla riva Sud del Mediterraneo, incerti sul medio-lungo periodo; quelli, attenti all´equilibrio del Vicino e del Medio Oriente, guardano ai trattati di pace egiziano e giordano con Israele come irrinunciabili pilastri di un equilibrio precario e, trattenendo il respiro, al pericolo iraniano e al contagio pakistano, non meno che al rischio nucleare.
Principale serbatoio delle risorse energetiche mondiali e leader degli emirati petrolieri del Golfo, la grande incognita regionale che si cerca di esorcizzare ignorandola è l´Arabia Saudita. Con il vicino Egitto, attraverso il Mar Rosso che tradizionalmente unisce, più che dividere, i due paesi arabi più importanti le grandi differenze celano rischi, solo in parte diversi: l´attenzione per le vicende egiziane è stata quasi ipnotica nelle scorse settimane nel regno dei Saud. Quando Nasser rovesciò la monarchia egiziana, i fermenti repubblicani percorsero tutta la regione. I sauditi corsero ai ripari con un abile compromesso tra fermezza repressiva, rigorismo wahabita e opere sociali.
Oggi, la cosiddetta “maledizione del petrolio” (in realtà, di tutte le economie basate sulle risorse naturali), sempre causa di disuguaglianze macroscopiche e di disagio sociale in un sistema economico centralizzato, ha prodotto una vasta burocrazia civile, militare e di sicurezza, nata anche per distribuire potere d´acquisto e gestire i prezzi sovvenzionati, poiché in realtà l´industria energetica dà lavoro a poco più di cinquantamila persone in un paese di venticinque milioni di cui circa un quinto sono lavoratori stranieri (molti egiziani) e con una notevole disoccupazione. La famiglia reale – Kissinger diceva che l´Arabia Saudita non è un paese, ma cinquemila principi – tenta da anni di realizzare forme di sviluppo e di occupazione alternative e, insieme, di stabilizzazione sociale, persino in agricoltura malgrado le condizioni sul terreno. Con successi modesti, a parte le opere pubbliche.
Re Abdallah punta invece, da qualche anno in collaborazione con grandi università americane, alla creazione delle premesse per un´economia basata sulla conoscenza facendo sorgere nel deserto numerose facoltà scientifiche e tecnologiche avanzate che educhino i giovani ad inserirsi nella “new economy”. A breve termine, però, la prospettiva di molti laureati in campi d´avanguardia nelle nuove università desta preoccupazione per la mancanza di impieghi appropriati alle loro qualificazioni, né è probabile che sorgano industrie che creino posti del genere: le aspettative non soddisfatte sono sempre state una potente molla di sollevazione per le giovani generazioni.
Il panorama saudita è molto diverso da quello dell´Egitto che non ha visto soltanto quella che all´inizio era sembrata la rivolta del pane, ma l´appello alla democrazia. Il regno saudita, caso mai, richiama alla mente la Tunisia intensamente scolarizzata, forse l´Algeria, ma prefigura comunque un quadro in cui trovano collocazione la disoccupazione e altri fattori più politici di disagio, dai diritti umani a quelli civili e religiosi, alla durezza del clero e alla carente democrazia, dall´inquietudine della minoranza sciita sul Golfo Persico alla sorda ostilità verso Riad del regime iraniano che non nasconde pretese egemoniche regionali. I media elettronici hanno diffuso dappertutto la rivolta dell´Egitto, un paese che esercita da sempre un´influenza storica sugli arabi: gli sviluppi dell´Arabia Saudita meritano la più grande attenzione.
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