Dopo la stagione dell’impolitico ritorna il pensiero affermativo

Riedizione di un volume pubblicato nel 1993, con l’aggiunta di un capitolo sul rapporto tra comunità  e violenza, in questo libro il filosofo napoletano è ancora alle prese con la coscienza della crisi radicale del «politico». Siamo negli anni in cui i filosofi della politica hanno ormai accettato che la dialettica, fondata sulla contraddizione e sulla sua ricomposizione in un’unità  superiore, quella che collegava la classe al partito e il movimento allo Stato, era spezzata.

Riedizione di un volume pubblicato nel 1993, con l’aggiunta di un capitolo sul rapporto tra comunità  e violenza, in questo libro il filosofo napoletano è ancora alle prese con la coscienza della crisi radicale del «politico». Siamo negli anni in cui i filosofi della politica hanno ormai accettato che la dialettica, fondata sulla contraddizione e sulla sua ricomposizione in un’unità  superiore, quella che collegava la classe al partito e il movimento allo Stato, era spezzata.
Sullo sfondo di questa nuova consapevolezza emergeva l’irriducibile distanza che separava i soggetti della politica ispirati alle categorie moderne di sovranità, di Stato, di popolo, di nazione, da una nuova realtà che non godeva più della garanzia trascendentale dell’ordine politico. Venivano meno, e per sempre, le prerogative dell’equilibrio internazionale stabilito in Europa sin dalla pace di Westfalia descritte da Carl Schmitt nel Nomos della terra.
In quegli anni in Italia si era diffusa la convinzione che la filosofia poteva essere sottratta ad un rapporto meramente strumentale con il «politico». La prospettiva dell’«impolitico» che Esposito, come del resto Massimo Cacciari negli stessi anni, aveva desunto da Nietzsche e da Thomas Mann andava oltre. Negava infatti alla politica un rapporto con il «bene», vale a dire con il valore – e l’ideologia – fondante dell’azione politica. Così facendo l’impolitico tornava al nucleo originario dell’esperienza politica intesa come puro rapporto di forza che in questo volume viene analizzato rispetto alle categorie determinanti di politica e Occidente, mito e responsabilità o male e sovranità. Questa riflessione correva però il rischio di perdere l’orizzonte della trasformazione, limitandosi ad una riflessione sul disincanto e sul potere, rassegnandosi all’idea che il pensiero della politica altro non è che una filosofia dell’ordine costituito.
A questo esito deludente Esposito ha cercato di sottrarsi negli anni successivi cercando in libri come Bios e Pensiero Vivente (entrambi pubblicati per Einaudi) una soluzione che egli ha definito costituente e «affermativa». Il pensiero della politica deve restare un pensiero del conflitto che produce nuove istituzioni e non si limita all’evocazione – o al timore – della guerra civile. Esposito sembra escludere che questa possibilità sia stata realmente esperita nel corso della modernità. È rimasta imprigionata nel cuore impolitico della politica, sebbene abbia sempre mantenuto dentro di sé la possibilità di esprimersi.
L’«affermatività» della sua proposta consiste nel ribaltamento dell’antinomia tra ordine e conflitto sulla quale è germogliato lo stesso pensiero dell’«impolitico». Tentativo che resta complesso, e inconcluso. Perché una trasformazione sia realmente possibile bisogna infatti decostruire quel pensiero che esclude persino l’esistenza di una simile possibilità. Un conflitto – quando è reale – produce infatti istituzioni, norme, in altre parole positività storiche, fatti, eventi e non si limita soltanto alla registrazione di antinomie o paradossi.
La vera sfida di questo, e di altri pochi libri, resta quella di superare l’apoliticità dei filosofi italiani che la trasformazione preferiscono pensarla sempre come un atto mancato.
LIBRI ROBERTO ESPOSITO, DIECI PENSIERI SULLA POLITICA, IL MULINO, PP. 274, EURO 16

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