Si riaccende la polemica sull'esperienza storica del Partito d'azione e la sua eredità  politica Così la lezione di quegli intellettuali attivi, poi ripresa da Bobbio, oggi è diventata scomoda. Nella guerra di Resistenza PdA e Giustizia e Libertà  persero più dirigenti di quanto non accadde a Pci e Brigata Garibaldi. Settant'anni fa per la prima volta i pensatori hanno scelto di lasciare il loro riparo e riscattarsi da anni di passività  ">

Da Gobetti a Parri, cosa resta dell’azionismo

Si riaccende la polemica sull’esperienza storica del Partito d’azione e la sua eredità  politica Così la lezione di quegli intellettuali attivi, poi ripresa da Bobbio, oggi è diventata scomoda. Nella guerra di Resistenza PdA e Giustizia e Libertà  persero più dirigenti di quanto non accadde a Pci e Brigata Garibaldi. Settant’anni fa per la prima volta i pensatori hanno scelto di lasciare il loro riparo e riscattarsi da anni di passività 

Si riaccende la polemica sull’esperienza storica del Partito d’azione e la sua eredità  politica Così la lezione di quegli intellettuali attivi, poi ripresa da Bobbio, oggi è diventata scomoda. Nella guerra di Resistenza PdA e Giustizia e Libertà  persero più dirigenti di quanto non accadde a Pci e Brigata Garibaldi. Settant’anni fa per la prima volta i pensatori hanno scelto di lasciare il loro riparo e riscattarsi da anni di passività 

Le polemiche sull´azionismo si riaccendono a intermittenza e in questo senso costituiscono una sorta di sismografo pronto a registrare le fibrillazioni del nostro sistema politico, come dimostra il dibattito che ha fatto seguito alla manifestazione del Palasharp. Non a caso gli attacchi più virulenti contro Bobbio e i suoi amici si registrarono negli anni ´90 nel passaggio alla Seconda repubblica. Più passa il tempo, però, e più labili si fanno i riferimenti alla concretezza storica dell´esperienza del Partito d´Azione, la cui vicenda – è il caso di ricordarlo – fu brevissima e si consumò in soli cinque anni, dal maggio-giugno del 1942 all´ottobre del 1947.
I “sette punti” in cui era articolato il suo programma di fondazione prevedevano obbiettivi istituzionali (repubblica, decentramento amministrativo, autonomie locali, autorità e stabilità del potere esecutivo), economici (nazionalizzazione dei monopoli e dei grandi complessi industriali, finanziari, assicurativi; libertà «di iniziativa economica per le imprese minori individuali ed associative»; un´economia a due settori, uno pubblico l´altro privato, anche per l´agricoltura), sindacali, rivendicando anche una più accentuata separazione tra Stato e Chiesa e, in politica internazionale, una federazione europea «comunità giuridica tra stati». Nel nuovo partito confluirono almeno tre significativi filoni politico-culturali, liberalsocialista (Capitini-Calogero), liberaldemocratico (Parri-La Malfa) e gobettiano-giellista (Ginzburg, Garosci, Lussu) che trovarono una loro sintesi unitaria nella scelta di un ruolo di opposizione frontale al governo Badoglio dei “45 giorni”, seguiti al colpo di stato del 25 luglio 1943. Dopo l´8 settembre, soprattutto nel Regno del Sud, la linea politica dell´intransigenza si rivelò inizialmente vincente. La radicalità della lotta contro la monarchia condotta dal PdA, e condivisa da socialisti e comunisti, registrò un primo importante successo con la risoluzione del Cln centrale del 16 ottobre 1943 che proclamava il diritto del Cln stesso di costituirsi in «governo straordinario dotato di tutti i poteri costituzionali dello stato». Anche a Bari, al convegno dei partiti antifascisti del 28-29 gennaio 1944, fu l´”estremismo” delle proposte azioniste (la messa in stato d´accusa del re e la proclamazione di una costituente rivoluzionaria) a spianare la strada per il varo della Giunta esecutiva, «un organismo permanente equivalente al Cln centrale romano che poteva sostenere davanti agli alleati e all´opinione pubblica la lotta contro il re». E, a Roma, la crisi del Cln culminata nelle dimissioni di Bonomi il 24 marzo 1944 avrebbe potuto evolvere nel senso di una più accentuata rottura con il re e Badoglio se, agli inizi di aprile, non fosse intervenuta la scelta improvvisa di Togliatti di entrare nel governo filomonarchico.
Per il PdA, gli effetti più disastrosi di quella che fu allora definita la “svolta di Salerno” furono un improvviso isolamento politico e la sconfitta di tutte le sue speranze che le ragioni della “rottura” fossero in grado di prevalere su quelle della “continuità” con il vecchio Stato monarchico. Il dibattito che si aprì nelle sue file fu acceso e destinato a concludersi soltanto con la scissione del febbraio 1946. Al Nord, grazie soprattutto alla leadership di Valiani, prevalse una scelta tesa alla valorizzazione della politica dei Cln, «organismi popolari e rivoluzionari da cui doveva nascere, nel corso della guerra partigiana, il nuovo stato democratico». Il 20 novembre 1944, una lettera aperta del PdA a «tutti i partiti aderenti al Cln», tentava di rilanciarne il ruolo chiedendo di allargarne «la base di massa» e costituendo il Clnai in «governo segreto dell´Italia occupata». Ma la tendenza a ridimensionare i Cln era ormai irreversibile e presente anche all´interno dello stesso PdA. 
Nell´ottobre del 1944, a Roma, La Malfa aveva infatti avviato un´iniziativa per sostituire all´unità dei sei partiti del Cln, «una grande concentrazione democratica repubblicana», come «nucleo di una nuova politica nazionale»; elementi salienti dell´impostazione lamalfiana erano il pragmatismo del programma politico, la scelta dei ceti medi come interlocutori sociali privilegiati, la tendenza ad occupare il “centro” della scena politica senza indulgere verso le formule frontiste particolarmente care a Lussu. Ma “destra” e “sinistra”, Lussu e La Malfa, si scontrarono per tutto l´arco cronologico della vicenda del partito fino a che a Roma, nel febbraio del 1946, nel primo vero Congresso nazionale del PdA, il gruppo Parri-La Malfa se ne allontanò costituendosi in un autonomo «movimento per la democrazia repubblicana». Erano allora già falliti – prima ancora che il disastroso esito delle elezioni per la Costituente del 2 giugno 1946 ne ridimensionasse definitivamente le ambizioni parlamentari – i suoi tentativi di inserirsi stabilmente nella vita politica italiana. Nel novembre 1945, la “caduta” di Parri anticipò, col varo del primo governo tripartito (Dc, Pci e socialisti), una dislocazione per “blocchi” che svuotava dall´interno le ipotesi di “rivoluzione democratica” auspicata dagli azionisti. Di fatto, già allora la stagione politica del PdA poteva dirsi finita; due anni dopo, nell´ottobre 1947, la confluenza della sua ala maggioritaria nel Psi di Nenni e della minoranza nel nuovo Psli di Saragat fu solo la sanzione burocratico-organizzativa di un fatto compiuto.
Tutto qui? No. Non è concepibile l´esistenza del PdA senza l´apporto delle formazioni partigiane di Giustizia e Libertà ispirate dalla sua linea politica. Furono 35.000 i partigiani combattenti giellisti, il 20% del totale (i comunisti erano il 50%, con il restante 30% suddiviso tra autonomi, socialisti e democristiani). L´esiguità delle dimensioni del PdA risultò evidente quando si trattò di diventare “partito delle tessere”, non certo nei venti mesi, dal ´43 al ´45, quando fu il “partito dei fucili”. Nella lotta partigiana, tra le sue fila caddero Galimberti, Braccini, Jervis, Delmastro, Ferreira, Artom in Piemonte; Lanfranco, Astengo, Negri in Liguria; Gasparotto, Mario Damiani, Kasman in Lombardia; Luigi Cosattini, Pighin, Tedesco in Veneto; Allegretti, Colagrande, Jacchia, Masia, Quadri, Zoboli, Bastia, Giuriolo, in Emilia; Foschiatti, Felluga, Maovaz a Trieste; Manci a Trento; Bocci a Firenze; Ginzburg e Albertelli a Roma; alla fine le perdite delle Gl ammontarono a 4.500 uomini. Si trattò di un sacrificio che sottrasse al PdA e alle Gl insostituibili energie intellettuali e giovanili (il numero dei caduti tra i quadri medio-alti fu molto superiore a quello dei “pari grado” del Pci e delle Garibaldi). Ed è forse proprio in questo elenco il segreto delle polemiche che si scatenano oggi contro il PdA, nonostante siano passati settant´anni dalla sua estinzione. In quei nomi è racchiuso l´impegno di una minoranza, di intellettuali che, per una volta nella nostra storia, scelsero di abbandonare i comodi ripari del privilegio e del conformismo, per riscattare anni di ignavia e di passività. Di quella lezione Bobbio e l´azionismo torinese raccolsero l´eredità più significativa, così da diventare insopportabili per tutti quelli che amano compiacersi delle derive plebiscitarie che, periodicamente, riaffiorano nel nostro paese.

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