Aveva 17 anni quando nel Village incontrò il cantautore ventenne da poco arrivato a New York. Fu lei a introdurlo negli ambienti radicali e politicizzati della metropoli. E fu lei a comparire sulla copertina-icona di Freewhelin’. Ma a metà degli anni Sessanta le loro strade si divisero
Aveva 17 anni quando nel Village incontrò il cantautore ventenne da poco arrivato a New York. Fu lei a introdurlo negli ambienti radicali e politicizzati della metropoli. E fu lei a comparire sulla copertina-icona di Freewhelin’. Ma a metà degli anni Sessanta le loro strade si divisero
NEW YORK – “Era la cosa più erotica che avessi mai visto. Incontrarla fu come saltare nei racconti delle Mille e una notte. Cominciammo a parlare e la mia testa cominciò a girare”. La donna che mezzo secolo fa fece girare la testa a un ventenne di nome Bob Dylan è morta dopo una lunga malattia in questa New York lontana anni luce dal quel villaggio di artisti che lei stessa contibuì a costruire. Non c’è fan di Bob Dylan che non abbia fatto la sua conoscenza: Suzanne Rotolo era la ragazza che compare su quell’icona che è la copertina di Freewhelin’. Sottobraccio al suo Bob nel cuore del Village: l’immagine di un tempo felice fatto di musica e amore. E lotta.
Suze era tre anni più giovane di Robert Zimmerman quando – appena diciassettene – incontrò quel giovane chitarrista folk che sventolava il repertorio di Woody Guthrie in un bar italiano tra Mercer e West Fourth Streets. L’incontro che cambiò la storia della musica giovane e ribelle. Fu quella ragazzina a introdurre Bob da poco arrivato a New York negli ambienti più radicali e politicizzati della metropoli. Lei, la piccola attivista “italiana”, la figlia di due immigrati di seconda generazione già integrati nella controcultura newyorchese: il padre illustratore, la madre giornalista dell’Unità, la versione americana del quotidiano comunista. Lei, la giovanissima intellettuale che svezzò il provinciale venuto da Duluth, Minnessota, parlandogli di Picasso e Cezanne, cantandogli le poesie maledette di Rimbaud. E raccontandogli della tragedia del popolo nero riassunta dalla morte del piccolo Emmett Till che ispirò a Dylan una delle prime canzoni di protesta.
Bob e Suze erano i giovani principi del Village. E A Freewheelin’ Time: A Memoir in Greenwich Village in the Sixties si intitola non a caso il bel libro di memorie che Suze pubblicò tre anni fa. “Freewheeling” vuol dire “a ruota libera”. “Ma l’alleanza tra me e Suze” ricorderà Bob “finì per non essere esattamente una passeggiata nel bosco”. Due caratteri forti. Con lei troppo ribelle per accontentarsi del ruolo di musa. E lui ricco di quel genio troppo grande per restare rinchiuso nel Village. “Lei prese una strada e io un’altra” ricorderà Dylan nelle sue Cronache. Per la verità la strada di Bob si era già incrociata con quella di Joan Baez. Ma prima di finire tra le braccia della regina del folk mister Zimmerman perse letteralmente la testa per quell'”italiana” bella e testarda. Quando nel ’62 Suze seguì la madre in Italia e visse “in esilio” nell’Università per stranieri di Perugia a lei Bob dedicò disperato Tomorrow is a Long Time: domani è troppo lontano.
Poi dopo tre anni le loro strade si separarono davvero. Il suo attivismo la portò a imbarcarsi per Cuba e a difendere fino all’ultimo – e tra molte polemiche – il regime di Fidel Castro. Sposò un italiano. Continuò a vivere nel suo Village lavorando come insegnante e illustratrice. Solo per il film documentario di Martin Scorsese No Directions Home decise di parlare per la prima volta di Bob. Per poi raccontare tutto nel suo libro-confessione.
Ricorderà Dylan: “Quante notti ho trascorso sveglio a scrivere canzoni per poi mostrargliele e domandare: ‘Va bene così?'”. Va bene, è andata bene, è andata benissimo così
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