Prevenire i suicidi in carcere

Caltagirone, provincia di Catania, giovedì scorso. Nella casa circondariale della cittadina siciliana, Salvatore Camelia, neanche 40 anni, si impicca alla grata della finestra della sua cella. Stesso giorno, altra parte d’Italia. In una cella del carcere di Prato si impicca Antonino Montalto, 22 anni. Il giorno prima nella casa di lavoro di Sulmona – istituto che ha visto una quindicina di suicidi negli ultimi dieci anni e del quale simbolicamente proponemmo la chiusura – si era ucciso un internato di 66 anni, Mahmoud Tawfic.

Caltagirone, provincia di Catania, giovedì scorso. Nella casa circondariale della cittadina siciliana, Salvatore Camelia, neanche 40 anni, si impicca alla grata della finestra della sua cella. Stesso giorno, altra parte d’Italia. In una cella del carcere di Prato si impicca Antonino Montalto, 22 anni. Il giorno prima nella casa di lavoro di Sulmona – istituto che ha visto una quindicina di suicidi negli ultimi dieci anni e del quale simbolicamente proponemmo la chiusura – si era ucciso un internato di 66 anni, Mahmoud Tawfic.
Tre suicidi in due giorni qua e là per le galere italiane. Come se – più o meno questa la proporzione – quattro o cinque tifosi si togliessero la vita tutti assieme dentro lo stadio Olimpico di Roma. Certo la società del bel pensare si interrogherebbe su che cosa non funzioni là dentro.
Cosa non funziona nelle carceri italiane? Dietro le storie di disperazione individuale che hanno fatto contare almeno 65 suicidi penitenziari lo scorso anno e già cinque in questo nuovissimo 2011, c’è senz’altro qualcosa che non dipende dalle individualità bensì dalla sciatteria del sistema, per non dire di peggio. Il legame tra le invivibili condizioni di sovraffollamento carcerario e l’altissimo tasso di suicidi non è dimostrato, pur apparendo di una certa plausibilità. Ma al di là di ciò, le misure di buon senso che una struttura statale deputata alla custodia di esseri umani può adottare sono molteplici e trascurate. Il buon senso sembra spesso fermarsi alle porte del carcere, come purtroppo di varie altre istituzioni nell’attuale fase storica. Elenchiamo, senza alcuna pretesa di esaustività, qualcuna di queste misure.
Innanzitutto, durante la scorsa legislatura, una circolare emanata dall’amministrazione penitenziaria per volontà dell’allora sottosegretario Luigi Manconi invitava gli istituti a dotarsi di un’apposita sezione per nuovi giunti dove allocare i detenuti nella fase immediatamente successiva all’arresto, quella psicologicamente più delicata a detta di ogni esperto. L’uomo morto a Caltagirone, così come molti altri nel recente passato, aveva appena fatto ingresso nello stato di detenzione. La sezione per nuovi giunti avrebbe dovuto vedere tra le altre cose una presenza più assidua di educatori e psicologi. Di tale sezione ben poche carceri si sono a oggi dotate. Sarebbe un segnale forte nella giusta direzione se le carriere dei dirigenti si misurassero principalmente sul rispetto o meno di indicazioni di questo tipo, cosa che fino a ora non è accaduta. Non abbiamo notizia di alcun provvedimento preso nei confronti delle direzioni inadempienti.
In secondo luogo, non è chiaro cosa vieti al legislatore – al di là di una più o meno esplicita volontà vendicativa – di liberalizzare il numero di telefonate per quei detenuti che non sono soggetti a censura o controllo da parte della magistratura. Il contatto con famigliari e amici, oltre a costituire un ovvio elemento di reintegrazione sociale, è spesso il sostegno maggiore rispetto a eventuali momenti depressivi.
In terzo luogo, l’isolamento deve divenire una pratica penitenziaria da utilizzare in via del tutto eccezionale. Carmelo Castro, la cui vicenda è oggi nuovamente sotto l’esame dei magistrati, prima di morire – sia stato suicidio, come la prima archiviazione ha sostenuto, o meno, come i dubbi dei famigliari non escludono – ha trascorso in isolamento i suoi primi e ultimi tre giorni di detenzione.
Infine: è recentissima la notizia che la Corte Europea di Strasburgo ha intimato all’Italia di rivedere la propria normativa in merito all’interdizione al voto di detenuti ed ex detenuti. I diritti politici sono libertà fondamentali incomprimibili, ha detto. Sicuramente la negazione del voto è il contributo maggiore a quel processo di infantilizzazione che investe ogni detenuto nelle carceri italiane. I detenuti sono trattati come bambini e come bambini sono privati di ogni responsabilizzazione. Più facile, così, che smettano di sentire anche la responsabilità verso se stessi. Restituire il voto ai detenuti significa dare loro fiducia, farli sentire parte della costruzione di quella società nella quale la pena vuole tendere a reinserirli e far loro sentire il carico della propria soggettività. Una soggettività che vale maggiormente la pena di non dismettere.
*Antigone

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