«I nostri nazisti ci piacciono in uniforme, così li riconosciamo subito, al volo. Ma se ti togli quell’uniforme, nessuno saprà che eri un nazista. E questo non ci sta bene per niente». È con queste poche battute che il tenente Aldo Raine (Brad Pitt) spiega il compito degli inglorious basterds di Quentin Tarantino. Potremmo definirlo un lavoro «anti-mimetico». Si tratta di lasciare un marchio – nella fattispecie una svastica incisa a punta di coltello sulla fronte del nazista risparmiato – che non permetta al criminale di tornare a condurre una vita normale. Una mimesis che non gli consenta alcun mimetismo, alcuna redenzione. Si incide il reale, perché non possa mai più recedere dalla sua realtà . Perché sia sempre di nuovo riconoscibile. Una violenza (rivoluzionaria) che trattiene la violenza (originaria) nel campo del visibile. Questa inversione elide ogni possibilità di revisionismo. E non perché non si potrà ancora negare che gli Ebrei siano stati perseguitati, ma perché non si potrà più negare che i nazisti siano stati i loro persecutori. Il marchio inverte l’onere della testimonianza.
«I nostri nazisti ci piacciono in uniforme, così li riconosciamo subito, al volo. Ma se ti togli quell’uniforme, nessuno saprà che eri un nazista. E questo non ci sta bene per niente». È con queste poche battute che il tenente Aldo Raine (Brad Pitt) spiega il compito degli inglorious basterds di Quentin Tarantino. Potremmo definirlo un lavoro «anti-mimetico». Si tratta di lasciare un marchio – nella fattispecie una svastica incisa a punta di coltello sulla fronte del nazista risparmiato – che non permetta al criminale di tornare a condurre una vita normale. Una mimesis che non gli consenta alcun mimetismo, alcuna redenzione. Si incide il reale, perché non possa mai più recedere dalla sua realtà . Perché sia sempre di nuovo riconoscibile. Una violenza (rivoluzionaria) che trattiene la violenza (originaria) nel campo del visibile. Questa inversione elide ogni possibilità di revisionismo. E non perché non si potrà ancora negare che gli Ebrei siano stati perseguitati, ma perché non si potrà più negare che i nazisti siano stati i loro persecutori. Il marchio inverte l’onere della testimonianza.
In questo stesso orizzonte di riflessione si colloca il primo volume della nuova collana Quaderni dell’espressione edito da Cronopio: Sulla violenza, con saggi di Brooks, De Conciliis, Eagleton, Gasparotti, Martone, Moroncini, Nancy, Romitelli, Zanardi, Zizek.
All’origine di ogni potere consiste sempre una violenza che lo ha generato. Una volontà (creatrice) che ha interrotto il corso normale degli eventi. Questo non è mai un gesto neutro. All’inverso, è il gesto politico per eccellenza, perché destituisce di senso un ordine (economico, sociale, politico, simbolico) è necessario ad aprire alla possibilità di un modo differente di stare al mondo. In questo scenario, appare evidente come il ritornello sul farla finita con la violenza significhi semplicemente ribadire che la violenza del potere è stata, deve essere l’ultima. Da allora in poi solo police. Solo gestione del presente, contro ogni apertura d’avvenire. Ma la vita, giocoforza, ritorna sempre a rivendicare i suoi diritti. E lo fa sia come zoé, come vita generica, sia come costruzione storica specifica, come bios. Ogni generazione si configura di necessità come una forza creatrice collettiva la cui unica vocazione deve essere quella di dissestare il mondo che l’ha generata, per poterlo pensare nuovamente, diversamente, e finalmente appropriarsene.
Della violenza discute anche un recente saggio di Pierandrea Amato: La rivolta. L’assunto da cui muove questo breve scritto è elementare: «La rivolta è un’azione politica che inquieta la messinscena della democrazia». Anche qui, la rivolta ha una funzione anti-mimetica. Toglie la maschera al Leviatano, squarcia la rappresentazione della rappresentanza, per aprire alla genesi dell’homo seditiosus.
Precisando dall’esordio la sua posizione, questo scritto mira ad uscire dalla dialettica polare, tipica del Novecento, di potere costituente e potere costituito, per provare a concepire la rivolta come fenomeno radicalmente alieno alla sintassi della concettualità politica moderna, come pura infrazione destituente, ovvero come evento permanente della natura umana.
Sottraendosi ad ogni logica del riconoscimento, l’atto rivoltante rimette in movimento la vita, riattiva quella vita che sembrava ormai consegnata al suo definitivo addomesticamento, la rilancia verso la sua modificazione svelando la generica provvisorietà di ogni identità costituita. È in questa chiave che l’autore analizza le cicliche rivolte francesi. E quelle greche, che conoscono oramai lo stesso tasso di frequenza.
Nella rivolta, la verità della democrazia è rivelata. Il sovrano è costretto ad affermarsi come legge e, insieme, come sua eccezione, esponendo fuori da ogni mistica l’infondato arbitrio della sua violenza fondativa. È l’intero ordine democratico a configurarsi così come un esorcismo globale, che può e deve usare tutta la violenza necessaria per impedire al fantasma di ritornare, alla natura umana di mostrare la sua essenza rivoltante. In questo senso, anche nel testo di Amato si inverte l’ordine discorsivo della violenza. La violenza è la forza «artificiale» che tenta di trattenere l’umano nella docilità che lo rende sussumibile, e non la forza «originaria» con cui esso vi si sottrae.
LIBRI AA.VV. SULLA VIOLENZA, CRONOPIO, PP. 196, EURO 17,60
PERANDREA AMATO, LA RIVOLTA, CRONOPIO, PP. 110, EURO 10
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