Voce critica raziocinante e emozionante, anche all’ultimo contro i tagli alla cultura, Mario Monicelli ha raccontato nelle sue opere il processo di decadimento «piccolo borghese» italiano. Amava le rivolte dei «senza niente»
Voce critica raziocinante e emozionante, anche all’ultimo contro i tagli alla cultura, Mario Monicelli ha raccontato nelle sue opere il processo di decadimento «piccolo borghese» italiano. Amava le rivolte dei «senza niente»
Non più di due settimane fa, già in ospedale, «il compagno» Mario Monicelli, cavaliere della repubblica e medaglia d’oro per meriti artistici e culturali, aveva accettato un’intervista radiofonica con Hollywood Party per promuove Crepati, voci per uscire dal silenzio, un documentario di Francesco Paolucci sulla ricostruzione di L’Aquila, al quale aveva partecipato assieme a tanti altri artisti e intellettuali, critici sulla gestione del dopo terremoto. La voce era quella di sempre, raziocinante e emozionante, solo un po’ meno cristallina, aggredita dalla malattia; e la lucidità e acutezza del ragionamento, degne di Cesare Brandi, un’altra volta, sorprendenti: «Gli aquilani sono colti e ostinati e devono esigere la ricostruzione del loro gioiello di città, ma senza demandarla a nessuno. Certo, quel gioiello di città non sarà mai più quello di prima, non si possono rifare i palazzi e le chiese così come erano: dunque sarà un ottima occasione per chiamare i migliori urbanisti e architetti contemporanei a costruire L’Aquila del futuro». Amava l’Abruzzo, tartassata terra di artisti, anarchici, ribelli e emigranti, dove aveva girato una delle sue migliori commedie acide dell’ultimo periodo, Parenti serpenti, 1992, sul processo di mostruosizzazione dell’italiano, sempre più «piccolo piccolo borghese» e pavido dinnanzi alle nuove insinuanti deformazioni autoritarie che lo stanno devitalizzando. Amava, perché vi partecipava sempre, la rivolta delle Armate Brancaleone, dei senza pane, dei «miserabili», dei senza niente, dei «senza futuro», dei soliti ignoti, degli «abbasso la miseria», dei Compagni (il film che oggi rivedremo, alle 17 al Torino Film Festival). E fino a ieri invitava alla rivolta più violenta (che è sempre quella pacifista) i cittadini italiani, di ogni origine e etnia, defraudati perfino di valori costituenti primordiali, come la solidarietà , del loro partito «a parte» e del loro cinema, sempre combattuto nei decenni, dal minculpop censorio a Andreotti servo di Hollywood alla compiaciuta ignoranza dell’ex compagno Bondi. Al «no B day» non poteva mancare. «Ci vorrebbe la rivoluzione», almeno come programma minimo, andava consigliando con l’autorevolezza di un più volte candidato all’Oscar.
I suoi film migliori, fin dalle sceneggiature, dagli agrodolci retrogusti cinici, per Mario Mattoli e per i geni comici come Totò, Walter Chiari, Tognazzi, Sordi, Gassman… le maschere della nostra grande commedia dell’arte di arrangiarsi, e microstoria di un paese che da contadino si urbanizza e industrializza perversamente; e le sue regie, che furono imitate in tutto il mondo per la complessa e moderna tecnica comunicativa (I compagni, La ragazza con la pistola, Amici miei…sono macchine figurative-emozionali degne della nostra grande tradizione in maschera), pur non predicando mai, sapevano tirar fuori sempre energie sepolte, provocavano e non consolavano, insinuavano dubbi e non veleni, reagivano con tutte le armi umoristiche necessaria contro lo stato di cose presente.
Che fossero più i gruppi intellettuali cosmopoliti e eretici, da Longanesi a Mondadori, i giornali umoristici e a fumetti, gli adorati cineasti francesi del realismo sociale sfumato, drammaticamente comici, e una cultura musicale aggiornatissima, a ispirarlo dal secondo dopoguerra in poi, e non Zdanov e succedanei, ci spiega perché – come diceva il gigante Mattoli – «il suo realismo è sempre stato senza il ‘neo’». Una battuta usata per punzecchiare il populismo dell’ aristocrazia (anche Pci), ma che Monicelli avrebbe fatto suo nella polemica post sessantottina, politica e estetica, contro alcuni cineasti arroganti e post moderni della giovane generazione che, come il total filmmaker Nanni Moretti, avevano tutto il diritto di «uccidere i padri» ma solo se avessero dimostrato di saperli «scavalcare a sinistra», per sensibilità, radicalità, interpretazione profonda del paese e un rapporto altrettanto diretto e immediato con le classi sociali più umili e sfruttate. Se no era solo una banale arrampicata generazional-professionale. E lui, come Welles, ironizzava sulle politiche d’autore, perché , come Zavattini e Grifi, ci immaginava tutti dei potenziali cittadini filmmaker «armati» di potere visionario e utopistico. Credo che quella lezione abbia fatto maturare il regista cucciolo di Ecce bombo.
A proposito di francesi, Clair, Carne, Duvivier, Tourneur… Fu il salvataggio delle copie delle loro opere, oltre alla proiezione coraggiosa e ostinata dei loro film (non proprio amati dal fascismo) nei cine guf del ventennio, a porre le fondamenta per uno dei primi archivi del cinema in Italia, la Cineteca italiana di Milano. Fu quello il doppio audace colpo dei soliti noti frondisti: Comencini, Monicelli, Ferraro che, assieme a altri cari «pirati», salvarono dal macero (dove per legge dovevano finire) i capolavori più importanti degli anni trenta, alla faccia delle leggi che tutelano come intoccabile la proprietà privata. La società civile ha ben altre proprietà. È bello oggi sentire gli studenti in lotta nei licei e nelle università inneggiare a Monicelli e intonare per lui «Branca Branca Branca Leon Leon Leon!».
Perché Monicelli negli ultimi mesi ha manifestato violentemente contro i tagli selvaggi alla cultura e alla scuola che vogliono fare dell’Italia un paese servo e marginale. Un paese dove, per volare in cielo, bisogna buttarsi dalla finestra. E ho pensato a Pinelli più che alla sua testardaggine libertaria.
Non è un caso che si intitoli La nuova armata Brancaleone, l’ultimo suo lavoro, un corto del 2010 realizzato da alcuni studenti del Cine-TV Roberto Rossellini di Roma, coordinati da Mario Monicelli, Mimmo Calopresti e Renzo Rossellini, in sostegno alle lotte contro l’aggressione vampiresca alla scuola pubblica compiuta dal decreto Gelmini, e che è uno spaccato dell’Italia di oggi: speranze, illusioni, vizi, criminalità, virtù e una intatta voglia progettuale.
Il suo ultimo periodo di lavoro, sempre indipendente, sempre autonomo, perfino quando dovette sostituire Robert Altman sul set di Rossini !Rossini!, 1991, è stato infatti caratterizzato dalla riflessione, quasi una autopsia, sulle origini del male italiano (come non tornare alla rimossa aggressione coloniale, Le rose del deserto?) e da ardori e entusiasmi più estremi di quelli di un cineoperatore neofita. Polemico contro la perdita dell’orizzonte internazionalista ha fiancheggiato il collettivo di lavoro militante tra i feddayn (Lettere dalla Palestina, 2002) e si era unito (a differenza dell’oggi redivivo Fassino) allo schieramento no/new global di Genova, dove «era il più umile e il più giovane dei filmmakers», a detta di tutti i colleghi, che si sono messi al servizio del movimento e hanno documentato a quale livello di ferocia repressiva possa arrivare la democrazia e lo stato di diritto, quando è moderatamente inteso.
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