POLITICA E PSICOANALISI
E’ davvero un dono del caso (o dell’inconscio?) che il cambio di passo nell’analisi della società italiana suggerito dal recente rapporto Censis sulla scia del lavoro di Massimo Recalcati sia giunto nel pieno di una crisi politica che appare a tutti, quale che sia l’esito del voto del 14, di così ardua soluzione. Questa felice coincidenza, della quale bisogna essere grati a Giuseppe De Rita, serve in primo luogo a ricordarci una cosa che la politica istituzionale tende invece ostinatamente a dimenticare, questa: il berlusconismo è stato ed è una dimensione del rapporto di potere fra Capo e popolo che non passa solo né prioritariamente attraverso i dispositivi tradizionali della sovranità politica, ma tocca corde antropologiche e psichiche profonde – e tuttavia non misteriose, né inconoscibili -, delle quali è urgente cominciare a discutere se vogliamo provare a immaginare davvero una fuoriuscita dall’ultimo ventennio.
POLITICA E PSICOANALISI
E’ davvero un dono del caso (o dell’inconscio?) che il cambio di passo nell’analisi della società italiana suggerito dal recente rapporto Censis sulla scia del lavoro di Massimo Recalcati sia giunto nel pieno di una crisi politica che appare a tutti, quale che sia l’esito del voto del 14, di così ardua soluzione. Questa felice coincidenza, della quale bisogna essere grati a Giuseppe De Rita, serve in primo luogo a ricordarci una cosa che la politica istituzionale tende invece ostinatamente a dimenticare, questa: il berlusconismo è stato ed è una dimensione del rapporto di potere fra Capo e popolo che non passa solo né prioritariamente attraverso i dispositivi tradizionali della sovranità politica, ma tocca corde antropologiche e psichiche profonde – e tuttavia non misteriose, né inconoscibili -, delle quali è urgente cominciare a discutere se vogliamo provare a immaginare davvero una fuoriuscita dall’ultimo ventennio. Detto in altri termini, e dal rovescio: del berlusconismo (e quale che sia l’esito del voto del 14) non ci libereremo soltanto in forza di una manovra politica, per la buona ragione che il berlusconismo è precisamente una eccedenza dalla sintassi politica tradizionale alla quale non si lascia ridurre né ricondurre (lo sa bene il Cavaliere, quando giura che non si lascerà piegare dalle «manovre di Palazzo»).
Di che cosa sia fatta questa eccedenza, e come trattarla politicamente, è la questione a cui dare risposta.
Il lessico politico tradizionale non ce la fa, e nemmeno, dice De Rita, quello sociologico, da cui il suo ricorso alla letteratura psicoanalitica (il manifesto 8/12). Finalmente, verrebbe da dire, ma a una condizione: che questo non serva a fornire alla politica l’ennesimo alibi per risospingere nell’ambito individuale quella che è invece una sintomatologia dell’epoca. Il vantaggio del discorso di Recalcati, che qui devo dare per noto (cfr. il manifesto del 7/12), sta precisamente nel porre al centro una questione – il rapporto fra desiderio e Legge – che è dell’ordine simbolico, e dunque in primo luogo riguarda parimenti l’individuale, il sociale e il politico, in secondo luogo ci interpella tutti, ad sopra – o al di sotto – dei campi d’appartenenza ideologici: è uno di quei nodi, direbbe uno studioso del populismo come Ernesto Laclau, sui quali si gioca la lotta per l’egemonia nella costruzione del soggetto politico. E’ chiaro dall’analisi di Recalcati come il berlusconismo, in linea con «il discorso del capitalista» neoliberista, abbia interpretato questo nodo e vinto questa lotta: sostituendo alla dialettica fra desiderio e legge l’ingiunzione al godimento immediato e al consumo compulsivo dell’oggetto (cose e corpi, femminili in primo luogo, ridotti a cose). Ma è anche vero, come ha ricordato nella sua lettera dell’8/12 Francesco Mereghetti, che questa lotta ha conosciuto altre stagioni, altri soggetti e altri posizionamenti – il Sessantotto, i movimenti di liberazione sessuale, e differentemente, aggiungo io, il femminismo – che hanno interpretato e «sovvertito» il rapporto fra desiderio e Legge in tutt’altri termini, non in linea ma in rotta di collisione con «il discorso del capitalista». Ricostruire come da quella stagione si sia passati al successivo rovesciamento berlusconian-liberista della questione è uno dei compiti che avremmo da svolgere, senza imputare al Sessantotto gli esiti di oggi, come fa un vasto fronte reazionario in tutto l’Occidente, ma anche senza esentarlo da una riflessione critica sulla distinzione allora mancata fra lotta al potere autoritario e svuotamento dell’autorità simbolica.
L’altro, più urgente, è capire come si rapporti a questo nodo lo scenario politico di oggi. Non si sfugge infatti all’impressione di essere di fronte a una sorta di bizzarra divisione del lavoro: che cioè a una destra che occupa il campo del desiderio svuotandolo della sua forza creativa e riducendolo a godimento mortifero, si contrapponga una sinistra che occupa il campo della Legge svuotandola della sua forza simbolica e riducendola a puro richiamo normativo. Godimento senza legge da una parte, norma senza desiderio dall’altra; illegalità come programma da una parte, legalità come parola d’ordine dall’altra: il gioco politico pare inchiodato precisamente su questo nodo. E non pare promettere a breve un cambio d’egemonia: finché la sinistra contrappone solo un ideale normativo a una destra che elargisce godimento a buon mercato, e finché tenta di riportare al dover essere della legge un Capo che gode e fa godere della sua trasgressione, si sa come va a finire la partita.
Che tuttavia non è tutta giocata, precisamente perché non è tutta in mano al gioco politico. Qui ha ragione De Rita a rivendicare il suo ottimismo, con l’occhio del sociologo abituato a leggere le trasformazioni che procedono sotto e nonostante la crosta del politico; ma sbaglia a volerle necessariamente incardinare su figure a venire, che d’altronde non vede all’orizzonte. Non è al futuro infatti che bisogna guardare ma al presente, dentro tutto quello che non è dominato dalla pulsione di morte, dal godimento dell’oggetto e dal discorso del capitalista che Recalcati mette a fuoco: non solo pratiche di resistenza, ma invenzione di forme di relazione, mediazione, regolazione e autorizzazione che non sottostanno alla «sregolazione pulsionale» dominante ma nemmeno si costituiscono in legge o vi si sottopongono. Quello che in campo femminista è stato detto sull’ordine simbolico della madre, inteso non come una legge sostitutiva e simmetrica a quella del padre ma come un principio generatore di forme sociali già attivo nella crisi del patriarcato, è un tassello indispensabile per riuscire a vedere che il tempo della «evaporazione del padre» non ci consegna necessariamente alla pulsione di morte.
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