Strategie di riappropriazione per i beni comuni

BIOCAPITALE
La presa di posizione del Dipartimento di Giustizia statunitense è a suo modo storica. Non solo perché segnala un cambiamento di orientamento all’interno dell’amministrazione Usa dopo il lungo inverno delle ere Clinton e Bush, quando la corsa ai brevetti sul genoma umano era salutata con favore dagli inquilini alla Casa Bianca, ma perché individua in quella corsa un ostacolo alla ricerca scientifica.

BIOCAPITALE
La presa di posizione del Dipartimento di Giustizia statunitense è a suo modo storica. Non solo perché segnala un cambiamento di orientamento all’interno dell’amministrazione Usa dopo il lungo inverno delle ere Clinton e Bush, quando la corsa ai brevetti sul genoma umano era salutata con favore dagli inquilini alla Casa Bianca, ma perché individua in quella corsa un ostacolo alla ricerca scientifica. È però una presa di posizione non vincolante e non è detto che i giudici dei diversi processi aperti da associazione dei pazienti e dei diritti civili contro questa o quella impresa biotecnologica o farmaceutica ne tengano conto. Anche perché è quasi certo che il conflitto tra chi sostiene la brevettabilità del genoma umano e chi invece considera quelle conoscenze un bene comune che non può essere privatizzato si sposterà dalle aule dei tribunali alla Corte Suprema, dove tutto può accadere. La presa di posizione del Dipartimento di Giustizia costituisce tuttavia una linea di demarcazione tra un prima e un dopo di cui tutti – dagli Usa all’Europa, alla Wipo e al Wto – dovranno tenere conto.
Sono infatti passati tre decenni da quando sempre una Corte suprema statunitense decise che le imprese o le università potevano brevettare le conoscenze sul Dna. Da allora la cosiddetta mappatura del Dna ha proseguito il suo corso, facendo crescere quel settore che gli studiosi oramai chiamano «biocapitale», cioè le imprese farmaceutiche e biotecnologiche che fanno affari con l’applicazione delle conoscenze acquisite proprio nella mappatura del Genoma umano. Il caso più noto e citato è quello di Craig Venter, ricercatore pagato dal National Institute of Wealth che si è licenziato per correre all’Ufficio dei brevetti Usa e brevettare quello che aveva «scoperto» nel suo lavoro. Ma questa è già storia. Quello che conta in questo ruvido presente è come elaborare strategie vincenti affinché l’opposizione alla trasformazione in merce e mezzo di produzione del genoma umano non sia limitata a una minoranza di attivisti o ricercatori. L’uso dei brevetti per la produzione sociale di settori economici o per definire i rapporti di potere tra le multinazionali farmaceutiche o biotecnologiche è infatti una strategia che spesso passa sotto silenzio, a differenza invece dell’attenzione che viene dedicata al copyright. Eppure quella dei brevetti è la frontiera più insidiosa della proprietà intellettuale, perché riduce a scoperta scientifica da tutelare attraverso la logica della proprietà privata di ciò che è invece comune agli esseri viventi, dagli umani alle piante.
E se la proprietà intellettuale ha legittimato politicamente la biopirateria verso le conoscenze tacite acquisite nel corso dei millenni da parte delle popolazioni nel cosiddetto Sud del pianeta, in Europa, Stati Uniti e in alcune realtà nazionali emergenti dell’Asia è usata dall’industria farmaceutica e biotecnologica per sviluppare un settore – il biocapitale, appunto – da molti considerato il settore economico strategico del futuro. Da qui la necessità di elaborare proposte e strategie di resistenza che impediscano strategie di enclosures sulla conoscenza della vita. E come nel copyright non serve sviluppare una ricerca scientifica open, cioè aperta e non sottoposta alle norme sui brevetti, quanto di sviluppare pratiche sociali che puntino alla riappropriazione di ciò che è comune.

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SCAFFALI
La genomica low cost è anche personalizzata
Sulla proprietà intellettuale si basano le strategie commerciali delle aziende biotech e farmaceutiche, e spesso i diritti di esclusiva previsti da un brevetto impediscono a chiunque di effettuare analisi sui propri geni per trovare una mutazione che predispone al cancro alla mammella (come nel caso dei geni Brca). Insomma, il test costa diverse centinaia di dollari e nessuno può testare i geni in qualunque altro modo, attribuendo a Myriad un monopolio non solo sul test ma sui geni stessi. Ma questo modello sta entrando in crisi anche a causa delle innovazioni tecnologiche nel settore della genetica. «23andMe», impresa finanziata da Google e fondata dalla moglie di Sergey Brin, offre servizi di genomica personalizzata e vende un ampio sequenziamento di mutazioni presenti nel nostro genoma. Basta spedire un campione (e 500 dollari) per avere un quadro delle mutazioni presenti in geni legati a più di 100 patologie. «23andMe» ignora i brevetti di Myriad e fornisce anche i dati sui geni Brca. Seppure usando metodi diversi da quelli brevettati sta tecnicamente infrangendo la legge. Poche settimane fa è apparso sulla rivista «Genome Biology» uno studio dell’Università del Maryland. I ricercatori hanno sviluppato un software open source che chiunque può scaricare gratuitamente dalla rete e usare per analizzare i propri geni Brca alla ricerca delle famigerate mutazioni. Spedisci un campione a un’azienda, richiedi il sequenziamento completo del genoma o della parte che ti interessa, metti i dati nel tuo computer e in poche ore ottieni i risultati sulle mutazioni e la possibile correlazione con la patologia. Nell’era della genomica personalizzata, del sequenziamento «low cost» e della diffusione di potenti personal computer, ha ancora senso pretendere che una persona non posso analizzare il suo stesso Dna?

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