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Stop al 41 bis, l’indagine punta sul Viminale

La procura cerca il verbale della riunione del ’93: lì si parlò di revocare il carcere duro ai boss.   Il fratello del giudice morto in via D’Amelio: “L’ex ministro Mancino parli”. Occhi puntati su quel 12 febbraio quando si radunò il Comitato per l’ordine pubblico

La procura cerca il verbale della riunione del ’93: lì si parlò di revocare il carcere duro ai boss.   Il fratello del giudice morto in via D’Amelio: “L’ex ministro Mancino parli”. Occhi puntati su quel 12 febbraio quando si radunò il Comitato per l’ordine pubblico

PALERMO – Le attenzioni dei magistrati che indagano sulla trattativa fra Stato e mafia sono adesso puntate sul comitato nazionale dell´ordine e della sicurezza pubblica convocato al Viminale il 12 febbraio 1993: si discusse del carcere duro nei confronti dei capimafia, ma non per rafforzarlo. Tutt´altro, a leggere la nota dell´allora direttore dell´amministrazione penitenziaria Nicolò Amato che Repubblica ha rivelato sabato: «In quella sede, particolarmente da parte del capo della polizia, sono state espresse riserve sulla eccessiva durezza di siffatto regime penitenziario». E anche il ministero dell´Interno avrebbe chiesto delle attenuazioni. Per l´indagine sulla trattativa è una novità importante, perché proprio in quei mesi il vertice di Cosa nostra rassicurava i boss in carcere che il 41 bis sarebbe stato revocato presto. Più collaboratori di giustizia non hanno avuto dubbi nel riferire i messaggi che arrivavano da Bernardo Provenzano.
Dunque, adesso, il nodo attorno a cui ruota l´indagine dei pm Antonio Ingroia, Nino Di Matteo e Paolo Guido è questo: come facevano i capimafia a sapere che al vertice dello Stato (ufficialmente per la linea dura contro i boss) si discuteva di offrire delle aperture ai padrini detenuti (non è ancora chiaro perché)? La Procura di Palermo vuole acquisire al più presto il verbale del comitato tenuto al Viminale, di cui nessuno ha mai parlato ai magistrati nel corso delle diverse audizioni di esponenti istituzionali dell´epoca. Non ne fece cenno neanche il prefetto Vincenzo Parisi (deceduto nel 1995), quando si trovò di fronte alla commissione antimafia, l´11 giugno 1993.
«Dopo anni di attesa, ci avviciniamo a verità importanti – dice Salvatore Borsellino, il fratello del giudice Paolo – ma temo che i magistrati possano essere fermati. Continuano ad essere attaccati e intimiditi in tutti i modi da parte di certe istituzioni». «Le intimidazioni sono anche nei confronti dei collaboratori di giustizia – prosegue Borsellino – non concedere il programma di protezione a Gaspare Spatuzza equivale a dare un segnale chiaro a tutti quelli che vorrebbe parlare». Il 20 novembre, Borsellino sarà davanti al palazzo di giustizia di Palermo: «Altri presidi – spiega – saranno a Milano, Roma e Firenze. Sarà un modo per dire: giù le mani dai nostri giudici». Il fratello del giudice ucciso nel ´92 torna a lanciare un appello: «Ci sono uomini delle istituzioni che sanno, ma tacciono. L´ex ministro Mancino parli».
Resta il giallo del comitato al Viminale. Una traccia è nel lancio Ansa del 17 febbraio di quell´anno. L´allora ministro dell´Interno Mancino riferiva al consiglio dei ministri sulla situazione dell´ordine pubblico citando una «relazione» di Parisi al comitato del 12. Ma nessun cenno faceva Mancino al carcere duro.
Per i pm di Palermo è il capitolo più difficile dell´inchiesta: quello della «seconda fase della trattativa». La prima, Riina l´avrebbe portata avanti durante le stragi del ´92 tramite Vito Ciancimino, che dialogava con il colonnello Mario Mori (oggi imputato per favoreggiamento, che continua a negare di aver mai visto il papello con le richieste dei boss). La seconda fase, dopo l´arresto di Riina (15 gennaio ´93), sarebbe stata condotta da Provenzano con un «terminale politico», come sostiene Massimo Ciancimino, chiamando in causa Marcello Dell´Utri («Così seppi da mio padre»). Non ha ancora un nome la talpa che i mafiosi avrebbero avuto nei palazzi della politica, così da ottenere notizie di prima mano sulle possibili revoche del 41 bis. È la talpa che il pm Gabriele Chelazzi cercava già otto anni fa.

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