Obamagate, l’ultima tentazione del Tea party

ULTRà€ Le assurde accuse al presidente

NEW YORK
«Credo che ci sia spazio per un compromesso e la possibilità  di raggiungerlo insieme» ha detto Barack Obama nel suo abituale discorso radiofonico del sabato, il primo dopo le elezioni che hanno ridisegnato gli equilibri di Washington. Obama non si stanca di parlare di collaborazione tra la Casa bianca e la nuova leadership del Gran Old Party, anche se dall’altra parte continuano ad arrivare segnali molto meno concilianti. 

ULTRà€ Le assurde accuse al presidente

NEW YORK
«Credo che ci sia spazio per un compromesso e la possibilità  di raggiungerlo insieme» ha detto Barack Obama nel suo abituale discorso radiofonico del sabato, il primo dopo le elezioni che hanno ridisegnato gli equilibri di Washington. Obama non si stanca di parlare di collaborazione tra la Casa bianca e la nuova leadership del Gran Old Party, anche se dall’altra parte continuano ad arrivare segnali molto meno concilianti.  Si va dalla deputata teapartista del Minnensota Michele Bachman (scatenata contro il viaggio in India di Obama, perché secondo lei «costerà agli americani 200 milioni di dollari al giorno», in hotel di lusso ed entourage), alla promessa di ottenere la revoca della riforma sanitaria (ribadita ancora l’altro ieri dal futuro presidente della Camera, John Boehner). E se – almeno per ora – I repubblicani non sembrano intenzionati a mettere in discussione la legittimità della cittadinanza USA del loro presidente (altra iniziativa auspicata da Bachman e affini), il nuovo leader della maggioranza alla Camera Eric Cantor ha già annunciato di voler istituire una serie di inchieste per «verificare il funzionamento del governo». Il che significa cercare potenziali grimaldelli per smontare la sanità e le (pure morbide) redini imposte a Wall Street negli ultimi due anni. 
Insomma, nell’aria aleggia molto la candida dichiarazione che il capo della minoranza al Senato Mitch McConnell ha rilasciato solo qualche giorno prima che si andasse a votare: «Il nostro obiettivo principale sarà impedire che Barack Obama venga rieletto».
Non c’è dubbio che il programma politico, le ambizioni, il carisma, la razza, la valenza simbolica e la personalità stessa di Obama costituiscano un cocktail contro cui è stato creato un Everest di animosità ad personam. L’antipatia ( l’odio?), è tale che, nelle settimane prima delle elezioni, parecchi repubblicani al governo si sono lasciati andare a dichiarazioni di rimpianto nei confronti del suo predecessore democratico, Bill Clinton. 
Assorbita, e riportata, dai media come se fosse uno spontaneo, moto di nostalgia (giustificato anche dallo stereotipo del leader tutto calore umano e comunicativa, contro quello freddo, tutto cervello), l’evocazione repubblicana dei bei tempi del presidente numero 42, è surreale se si pensa alla ferocia con la quale i Clinton furono accolti a Washington.
Quando, durante un’intervista sul Today Show, il 27 gennaio 1998, Hillary Clinton parlò di «una vasta congiura di destra» ai danni di suo marito, la sua affermazione fu coperta di ridicolo da gran parte dei politici e degli opinionisti. Si era in pieno «scandalo Lewinsky». Nemmeno un anno dopo, al culmine di un iter che paralizzò quasi tutto il secondo mandato di Bill Clinton, il Congresso avrebbe votato contro l’impeachment. Ma, prima che Monica arrivasse all’orizzonte, i Clinton erano già stati messi sotto accusa per Whitewater (un’inchiesta su loro investimenti immobiliari in Arkansas, condotta in gran parte dal procuratore speciale Kenneth Starr, che si risolse a loro favore ma che, tra l’estate del 1994 e il 2000, costò ai cittadini Usa circa 60 milioni di dollari), Troopergate (in cui Clinton avrebbe usato degli state troopers per coprire una relazione illegittima), Travelgate (inspiegabile inchiesta sul licenziamento dell’ufficio viaggi della casa Bianca, nel 1993, da cui i Clinton vennero scagionati) e Filegate (per supposto accesso improprio della Casa bianca a file dell’Fbi – anche qui non saltò fuori nulla). E questo senza contare gli scandali mai decollati, ma entrati comunque a far parte di certo folklore popolare di estrema destra, su figli illegittimi di colore del presidente o sul coinvolgimento personale di Hillary nella morte (per suicidio) del capo di gabinetto della Casa Bianca Vincent Foster…Erano anni nei quali circolava un video (pare finanziato anche da Mel Gibson) in cui i Clinton venivano accusati di aver usato una pista d’atterraggio segreta a Little Rock per importare droga dal Centro America.
Assurdità del genere non sarebbero mai arrivate nel mainstream (i Clinton non piacevano all’establishment mediatico – che spremette tutto il possibile da Whitewater e Lewinsky – ma gli standard editoriali di allora erano più alti). 
In un certo senso, però, sfumature di cronaca nero/rosa a parte, non erano illazioni meno assurde di quelle secondo cui Obama non sarebbe americano, o dell’idea (da sketch di Satuday Night Live) di un «progetto anticoloniale di matrice kenyota» che il presidente avrebbe assimilato da suo padre. E quelle sono cose di cui oggi si parla al telegiornale. 
Con il passare del tempo, è venuto alla luce che gran parte di quella trama di finti scandali creati intorno ai Clinton era stata finanziata da un miliardario conservatore di Pittsburgh, Richard Mellon Scaife (una fortuna in banche, petrolio e alluminio). Oggi di Scaife (che nel frattempo ha aperto un istituto di scienze politiche presieduto da Kenneth Starr alla Pepperdine University) non si parla più. Il suo posto è stato preso dagli ancor più ricchi fratelli Koch. Glenn Beck e Sean Hannity in prima serata su Fox News hanno sostituito il velenoso blog The Drudge Report, che alimentò il caso Lewinsky. 
E, se la vita privata degli irreprensibili Michelle e Barack Obama non offre gli stessi appigli di quella dei Clinton, in quanto a strategie, l’impressione è comunque un po’ quella di trovarsi di fronte a un film già visto.

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