Obama sbarca a Mumbai in cerca di contratti per far dimenticare il voto

Il presidente dorme al Taj Mahal hotel, nel 2008 attaccato da terroristi pachistani

MUMBAI – “Jobs jobs jobs”, tre volte lavoro: è con questo slogan che Barack Obama ha dato il senso della sua visita in India che comincia oggi. Paradosso impensabile ancora pochi anni fa, il presidente degli Stati Uniti “cerca aiuto” per la sua economia venendo in una nazione che fu tristemente famosa per le carestie e la miseria di massa.

Il presidente dorme al Taj Mahal hotel, nel 2008 attaccato da terroristi pachistani

MUMBAI – “Jobs jobs jobs”, tre volte lavoro: è con questo slogan che Barack Obama ha dato il senso della sua visita in India che comincia oggi. Paradosso impensabile ancora pochi anni fa, il presidente degli Stati Uniti “cerca aiuto” per la sua economia venendo in una nazione che fu tristemente famosa per le carestie e la miseria di massa. L´India lo accoglie sfoggiando la sua generosità ma anche l´orgoglio nazionale. Mumbai offre a Obama uno spettacolo gioioso per la festa del Diwali, il Natale induista: le strade sono invase ancor più del solito da una folla indaffarata, i templi e le finestre delle case sfavillano di neon colorati. Nonostante la massima allerta anti-terrorismo che circonda la visita di Obama, non c´è verso di impedire che al tramonto si scateni un putiferio di fuochi d´artificio, mortaretti e petardi.
Traversando la città Obama stamane avrà davanti agli occhi lo spettacolo di tutte le contraddizioni indiane: dall´aeroporto fino alla Gateway of India (l´arco coloniale di Giorgio V), lungo le spiagge sul Mare d´Arabia si alternano i quartieri chic della nuova borghesia figlia del boom e le catapecchie fetide delle baraccopoli. Anche con queste vaste sacche di miseria al suo interno, nell´incontro di oggi fra le due più grandi democrazie del mondo è l´India ad avere il vento a favore, con una crescita economica dell´8% annuo.
Reduce dalla disfatta elettorale Obama arriva alla guida di una delegazione di 200 imprenditori. C´è tutta la grande industria americana schierata al suo fianco da General Electric a Pepsi Cola. Subito il presidente incassa un maxi-contratto da 5,8 miliardi di dollari a favore di Boeing che fornirà aerei da trasporto C17 all´aviazione militare indiana. Prima di partire sull´Air Force One da Washington, Obama aveva commentato la creazione di 159.000 posti di lavoro nel settore privato a ottobre: «Non bastano, ci vuole molto di più per ridurre un tasso di disoccupazione insopportabilmente alto. In Asia mi concentrerò su questo, la nostra speranza è l´apertura di nuovi mercati, in India e nei paesi vicini». Quello slogan “jobs jobs jobs” che ha scandito prima di lasciare gli Stati Uniti, è dettato dalle urne: negli exit poll il 60% degli elettori ha detto di aver votato pensando all´economia. La tournée di dieci giorni in Asia diventa anzitutto una missione da commesso viaggiatore nelle zone più dinamiche del mondo. «La competizione più importante – dice Obama – non è fra democratici e repubblicani, ma tra le nazioni che aspirano a guidare l´economia globale. La Cina non sta ferma».
La politica interna lo insegue in modo fastidioso. Nei talkshow di destra esplode la polemica sui costi della tournée. Il sito Drudgereport riprende senza controllarle delle cifre citate da una tv indiana: 200 milioni al giorno di spese di trasferta. La Casa Bianca smentisce e trasecola per l´assurdità: il viaggio sarebbe più caro della guerra in Afghanistan che costa 190 milioni al giorno. Glenn Beck su FoxNews e Rush Limbaugh alla radio si scatenano, citano un´altra voce secondo cui 34 navi militari americane sarebbero al largo di Mumbai per proteggere Obama da un attacco terroristico. Al Pentagono il portavoce Geoff Morrell esplode: «E´ comico, ci sarebbe un decimo di tutta la U. S. Navy». La polemica non si spegne, anche se le cifre sono false quelli del Tea Party hanno le idee chiare sugli “sprechi di Washington”. La deputata di destra Michelle Bachmann propone che «il presidente smetta di viaggiare e usi le videoconferenze».
Anche in India, nonostante l´immensa popolarità di cui gode ancora, Obama non ha un compito facile. Le tensioni latenti tra i due paesi sono espresse nel luogo simbolico dove risiede il presidente: l´hotel Taj, il primo bersaglio dell´attacco di commando terroristici che qui fecero una strage (173 morti) il 26 novembre 2008. Il Taj è il ricordo di una ferita aperta. Da una parte è il simbolo di un interesse comune ad America e India: sconfiggere la violenza ispirata al fondamentalismo islamico. D´altra parte l´impunità dei terroristi del 2008, che venivano dal Pakistan dove erano stati addestrati dai servizi segreti, ricorda agli indiani che il loro grande nemico è sostenuto da Washington. Per quanto riluttante, la scelta di Obama di dare fiducia ai militari pachistani per debellare i santuari di Al Qaeda sul loro territorio, vista dall´India è un errore strategico. A conferma dei nervosismi c´è un mini-incidente diplomatico: alcuni ministri del Maharastra, lo Stato di Mumbai, hanno rifiutato la cena con il presidente dopo che il consolato Usa aveva preteso controlli di sicurezza «umilianti».
Obama dovrà convincere che lui è altrettanto filo-indiano di George W. Bush, che levò l´embargo sulle forniture di tecnologie nucleari (civili) a New Delhi. Oltre all´apertura del ricco mercato indiano per le imprese Usa, Obama deve trovare nel premier Singh una sponda per arginare l´espansionismo politico-militare della Cina. Decisamente, non v´è dubbio su chi abbia più bisogno di aiuto, fra le due superpotenze democratiche.

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