Obama dimezzato

L’America non sa dove sbattere la testa; ecco l’identikit degli Stati uniti che emerge dal voto di martedì. È andata alle urne una società  che ha pignorato la casa e sbattuto per strada 2,8 milioni di famiglie solo nel 2009 (e quest’anno va peggio), che ha licenziato 15 milioni di cittadini e altri 15 ne ha relegati in lavoretti, e sta per privare del sussidio di disoccupazione una decina di milioni di persone.

L’America non sa dove sbattere la testa; ecco l’identikit degli Stati uniti che emerge dal voto di martedì. È andata alle urne una società  che ha pignorato la casa e sbattuto per strada 2,8 milioni di famiglie solo nel 2009 (e quest’anno va peggio), che ha licenziato 15 milioni di cittadini e altri 15 ne ha relegati in lavoretti, e sta per privare del sussidio di disoccupazione una decina di milioni di persone. E che è bombardata dai messaggi più contraddittori: accusa i banchieri di Wall Street per la crisi attuale e poi vota per il partito di questi banchieri. Una società che si sente impotente contro una fatalità che attribuisce via via agli immigrati illegali, alle esportazioni cinesi, al fosco mondo dei politicanti di Washington, al complotto socialista e anticoloniale di un nero come Barack Obama. Una società manipolata dai finanziamenti occulti dei multimiliardari (in dollari), dal martellio delle tv di destra come Fox news, dal trapanamento cerebrale dei radiopredicatori, dalla retorica del capro espiatorio.
Se non fosse per questo contesto, verrebbe da dire «calma e sangue freddo» ai democratici e ai progressisti che si vedono relegati a minoranza dopo appena due anni di potere, e che paventano per Obama la disfatta nel 2012. Da sempre le elezioni a metà del mandato presidenziale segnano la sconfitta del partito al potere (unica eccezione recente nel 2002, un anno dopo l’11 settembre e in pieno clima di guerra). La batosta fu brutale per Bill Clinton nel 1994. Clinton fu poi rieletto nel 1996: però allora l’economia tirava. Nel 1982 invece era recessione, e alla Camera i repubblicani di Reagan furono schiacciati (166 contro 269 democratici), un rapporto peggiore di quello – inverso – che regna da oggi: 185 democratici e 239 repubblicani (11 seggi non sono ancora attribuiti). Al Senato invece, come i repubblicani sotto Reagan, così i democratici sotto Obama mantengono il controllo (anche se con un margine più esiguo): hanno già 51 senatori, contro 46 dei repubblicani, e restano ancora 3 seggi da attribuire. E nel 1984 Reagan fu rieletto trionfalmente.
Da oggi, al di là degli ostentati propositi di aperture bipartisan e disponibilità al compromesso, nei palazzi di Washington si combatterà una guerriglia di corridoio, si trameranno imboscate legislative, trappole procedurali per aggirare una sostanziale situazione di stallo istituzionale. I democratici sono stati puniti – soprattutto dall’astensione dei propri elettori – per aver tradito il mandato che era stato loro affidato, per non aver difeso la piattaforma su cui erano stati eletti, per – diciamola tutta – la loro smisurata viltà politica. Ma a essere sconfitta in modo ancor più irreparabile è l’economia statunitense. Con il rapporto di forze istituzionale emerso dalle urne, non si vede come sarà possibile generare quei milioni di posti di lavoro che soli potrebbero rendere più respirabile l’atmosfera politica. E la stagnazione economica rischia di precipitare il collasso culturale che il voto di ieri fotografa.

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