Magistrati a sinistra, l’eresia da ritrovare

Credevo non fosse una notizia. Ma visto che è diventata tale non ho difficoltà  a spiegare. Sì, dopo oltre quarant’anni e senza esservi costretto da ragioni di età , lascio la magistratura e Magistratura democratica. C’è, in questa scelta, la curiosità  intellettuale e pratica di esplorare altre strade per contribuire a tutelare (spero in modo più incisivo) i diritti e l’uguaglianza di chi non ha diritti ed è meno uguale. Ma c’è anche una componente politica. Dal gennaio 1970, quando entrai in magistratura (era l’indomani della strage di piazza Fontana), la società  e la magistratura sono profondamente cambiate.

Credevo non fosse una notizia. Ma visto che è diventata tale non ho difficoltà  a spiegare. Sì, dopo oltre quarant’anni e senza esservi costretto da ragioni di età , lascio la magistratura e Magistratura democratica. C’è, in questa scelta, la curiosità  intellettuale e pratica di esplorare altre strade per contribuire a tutelare (spero in modo più incisivo) i diritti e l’uguaglianza di chi non ha diritti ed è meno uguale. Ma c’è anche una componente politica. Dal gennaio 1970, quando entrai in magistratura (era l’indomani della strage di piazza Fontana), la società  e la magistratura sono profondamente cambiate.
La magistratura di quegli anni era ancora, prevalentemente, un corpo burocratico chiuso, cementato da una rigida ideologia di ceto: un corpo separato dello stato, collocato culturalmente, ideologicamente e socialmente nell’orbita del potere, avvertito come ostile dalle classi sociali subalterne e, a sua volta, diffidente e ostile nei confronti di quelle classi. Non mancavano, certo, i magistrati progressisti, ed erano talora personaggi di prestigio; ma la loro presenza non bastava a intaccare il sistema. Contro quella magistratura e contro il relativo contesto istituzionale era nata, da poco, Magistratura democratica, avvertita dai più come una eresia all’interno delle istituzioni. Negli anni l’eresia ha messo radici, è cresciuta, ha prodotto cultura, ha contribuito a cambiare la magistratura, rendendola più indipendente e capace di interventi in altre epoche impossibili. Penso al diritto del lavoro, alla tutela degli interessi diffusi e dei diritti dei più deboli, al contrasto della criminalità organizzata e delle diverse forme di eversione, al controllo di legalità diffuso e via elencando. È un processo che si è sviluppato attraverso un conflitto talora aspro tra chi ha burocraticamente accettato lo status quo e chi ha tenuto aperta la prospettiva della indipendenza reale della giurisdizione e della eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Di questa vicenda ho avuto la ventura di essere partecipe: nell’esercizio quotidiano della giurisdizione (come pretore prima e, poi, come pubblico ministero, come giudice minorile, come giudice di legittimità) e nel percorso di Magistratura democratica (che di quel processo di cambiamento è stata motore instancabile).
Quarant’anni dopo alcune cose sono acquisite. In particolare, la magistratura e la giurisdizione hanno fatto passi avanti significativi sul piano culturale, su quello della consapevolezza di sé e della propria indipendenza, sul versante organizzativo e su altri punti ancora. E, tuttavia, la situazione che ci circonda è gravemente insoddisfacente: il sogno di uguaglianza predicato dall’articolo 3 capoverso della carta fondamentale (impegnativo anche per i magistrati) è in crisi apparentemente irreversibile; il sistema del welfare e dei diritti subisce attacchi senza precedenti; le relazioni industriali vengono quotidianamente riscritte all’insegna del primato dell’economia; il diritto penale diseguale (uno per i galantuomini e uno per i «briganti», o anche solo per i poveri o i migranti) è ormai oggetto finanche di sistemazioni teoriche; lo sfascio organizzativo generale della giurisdizione non ne esclude i tradizionali caratteri selettivi (come dimostrano la composizione e la tragedia del carcere); l’intervento giudiziario ha una cifra contraddittoria; la questione morale (anche) in magistratura è più che mai acuta e rimanda non a casi isolati ma a un sistema di potere rimasto invariato negli anni; la costruzione di un ceto di giuristi capace di interlocuzione con la politica sui temi del diritto e delle regole si allontana; l’«antipolitica» ritorna a contagiare la cultura dei magistrati.
Tutto ciò interpella la giurisdizione e richiede una nuova eresia, una nuova capacità di rompere equilibri consolidati, una critica forte di orientamenti giurisprudenziali che, mentre i riflettori stanno altrove, riprendono vigore e avallano doppi livelli di cittadinanza (sostenendo, per esempio, che la vita di un albanese vale meno di quella di un italiano…) o contribuiscono a trasformare la lotta alla povertà in lotta ai poveri (riempiendo all’inverosimile e senza necessità il carcere). È, dunque, necessaria una ripresa forte dell’iniziativa di Magistratura democratica che resta, per i giuristi progressisti, una irrinunciabile «stella polare» ma che, a volte, mostra preoccupanti cedimenti al pensiero dominante, alle sirene della gestione del potere, alla sicurezza corporativa (come accade alle eresie quando diventano partecipi di un nuovo ordine).
Ma se è così – mi chiedono in molti (dentro e fuori la magistratura) – perché andarsene, farsi da parte, lasciare il campo? Non è forse, questo, il segno di una sconfitta? No. Non lo è. È, al contrario, un segno di fiducia nella possibilità che una nuova stagione, coraggiosa e lungimirante, si apra. Non sarà facile, ma di essa vedo, anche nella magistratura, attori e protagonisti intelligenti e generosi. Giovani e meno giovani. Dalla Calabria al Piemonte, dalla Sardegna all’Emilia e via seguitando. Ma una nuova stagione richiede, insieme, fermezza nei princìpi e nuovi interpreti. Solo così si possono vincere resistenze, pigrizie, alibi di chi vuole che nulla (o poco) cambi. Questa è – io credo – la buona politica. Anche per quanto riguarda la giurisdizione e Magistratura democratica. Ma non basta proclamarlo. Occorre praticarlo. Con gesti coerenti (ovviamente senza abbandonare il campo, ma affrontando nuove sfide nella stessa direzione).

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