Libertà  O ILLUSIONE

Una folla di sostenitori attende da ieri la liberazione di Aung San Suu Kyi, la donna che incarna la battaglia per la democrazia in Birmania. Ma dopo le elezioni farsa lei avverte: potremo chiamarla apertura solo «quando l’intero mio popolo potrà  esercitare i suoi diritti fondamentali»

Una folla di sostenitori attende da ieri la liberazione di Aung San Suu Kyi, la donna che incarna la battaglia per la democrazia in Birmania. Ma dopo le elezioni farsa lei avverte: potremo chiamarla apertura solo «quando l’intero mio popolo potrà  esercitare i suoi diritti fondamentali» La liberazione di Aung San Suu Kyi? Certo che è importante, «ma sarebbe un tragico errore scambiare questo gesto per un’apertura di dialogo», dice Cecilia Brighi, dirigente della Cisl e autrice del libro Il pavone e i generali (Dalai editore, 2006), un appassionato quanto documentato resoconto della Birmania contemporanea attraverso l’opposizione al regime militare che domina il paese, in fasi alterne, da quarant’anni. 
«Togliere gli arresti domiciliari a Aung San Suu kyi non è un “passo verso la democrazia”, come alcuni sono felici di credere, proprio come non lo sono state le elezioni». Domenica scorsa la Birmania ha celebrato le prime elezioni parlamentari da vent’anni, presentate dal governo militare come passo di una «road map» per la democrazia. Prima però il governo ha messo fuori legge la Lega per la democrazia, che aveva rifiutato di partecipare alle elezioni denunciandole come una farsa, una manovra per legittimare il potere dei militari e la costituzione che si sono tagliati su misura. «Con le elezioni la giunta militare di governo ha voluto darsi una parvenza di legittimità, ma non rappresentano un cambiamento. Non è stato un voto “libero ed equo” e non poteva esserlo, date le premesse: una struttura istituzionale profondamente antidemocratica che lascia il controllo del potere ai militari, e una legge elettorale fatta per favorire il partito espressione del governo militare – che poi è la vecchia struttura paramilitare usata per reprimere le manifestazioni popolari e studentesche o per colpire gli oppositori, ora trasformata in “forza politica”».
Guardiamo i fatti, dice Cecilia Brighi – che è appena tornata dalla sua ennesima missione sul confine tra Thailandia e Birmania, dove vive un’ampia popolazione di sfollati birmani: profughi, lavoratori migranti, oppositori in esilio. «Il primo fatto è che i brogli sono stati sfacciati. Anche la parte di opposizione che ha provato a candidarsi non ha avuto spazio. Ci sono testimonianze di urne arrivate nei seggi già piene di voti espressi». Secondo altre testimonianze i dipendenti dello stato hanno avuto ordine di votare per il partito della giunta militare. senza contare che non c’erano osservatori né media stranieri: «E’ ridicolo. Definire una simile consultazione “primo passo verso la democrazia” significa chiudere gli occhi: come si può davvero crederlo, quando il 90% degli eletti appartiene al partito di governo e un quarto dei seggi è riservato ai militari».
Secondo fatto: «Le elezioni non hanno interrotto gli attacchi contro l’opposizione e verso le minoranze etniche», fa notare Brighi. Proprio domenica, giorno del voto, sono scoppiati scontri tra l’esercito e le forze della minoranza karen attorno alla città di Mianwadi, presso la frontiera con la Thailandia settentrionale: «Ero a Mae Sot, sul lato thailandese, quando c’è stato l’assalto delle truppe governative a Mianwadi: in un giorno abbiamo visto arrivare 30mila sfollati che fuggivano attraverso il fiume. Appena gli scontri si sono calmati le autorità thailandesi hanno rimpatriato quasi tutti, ma è una situazione estremamente instabile. Tutti i segnali dicono che l’esercito birmano sta preparando un’offensiva contro le minoranze etniche che non hanno accettato l’ossequienza alla giunta trasformando le proprie forze in milizie di frontiera sotto il comando dell’esercito».
Per completare il quadro bisogna considerare che il governo di Napidaw – la nuova capitale costruita ex novo nell’entroterra, dove le istituzioni del potere si sono trasferite lontano dall’occhio pubblico – spende lo 0,9% del budget statale per l’istruzione e altrettanto per la sanità, mentre la spesa militare è in espansione, «l’esercito ha costruito una rete di 800 enormi tunnel dove resistere in caso di attacco, sta costruendo un reattore nucleare, fa grandi acquisti di armamenti – l’ultimo sono 150 elicotteri da guerra M24, russi». Già: è un paese potenzialmente ricco, la Birmania, con grandi risorse naturali tra cui importanti giacimenti di gas («Nel 2007 lo stato ha incassato 150 milioni di dollari al mese dal gas naturale. Eppure ha speso appena 200mila dollari per prevenire la diffusione del virus Hiv, che è ormai un’emergenza pubblica anche se le autorità preferiscono ignorarla»).
Il gas è un elemento centrale: viene esportato in parte attraverso il gasdotto di Yadana, nel sud del paese, diretto in Thailandia. Un nuovo gasdotto è in costruzione verso la Cina, e come sindacalista Cecilia Brighi ne parla con allarme: «Sono 4.000 chilometri di tracciato e sappiamo che per il lungo tratto dove le opere sono in corso sono stazionati 3.200 soldati. Sappiamo anche che dove ci sono i militari, in Birmania, c’è lavoro forzato». E’ successo così negli anni ’90 con il gasdotto di Yadana: per costruirlo i militari hanno raso al suolo i villaggi lungo il tracciato, cacciando via gli abitanti ma dopo aver obbligato gli adulti a lavorare alla costruzione: la cosa è stata ampiamente documentata, più tardi, quando un gruppo di sopravvissuti e di sindacalisti birmani in esilio ha fatto causa all’azienda californiana Unocal, partner di quella impresa.
«Dalle informazioni che abbiamo raccolto, il ricorso al lavoro forzato sta aumentando», continua Cecilia Brighi, che parla con cognizione di causa: per conto dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Oil) raccoglie da anni ormai dati minuziosi sulla condizione dei lavoratori in Birmania, e in particolare sul lavoro forzato. «Finora, i nostri dati si basavano sulle ordinanze ricevute dai capi villaggio: il sistema è che le autorità militari ordinano di mettere a disposizione un certo numero di giorni di lavoro, e un villaggio non può rifiutare, pena rappresaglie». Di fronte alle denunce dell’Oil la giunta militare aveva promesso dei cambiamenti, aggiunge la sindacalista: «Anche la nuova costituzione però continua a prevedere il lavoro forzato. Abbiamo constatato però che sempre più spesso le ordinanze arrivano senza firma, o addirittura per via orale, così da non lasciare traccia. Sappiamo di decine di villaggi dove gli adulti sono stati “requisiti”, in particolare nel territorio dei karenni, per le opere stradali».
Con un quadro simile, insiste Cecilia Brighi, l’Unione europea sembra fin troppo felice di credere all’apertura di dialogo. «L’opposizione chiede invece di mantenere le sanzioni, imporre l’embargo sugli armamenti. Chiede una commissione internazionale sulle violazioni dei diritti umani e i crimini di guerra. E penso che L’Oil dovrà portare alla corte internazionale di giustizia la questione del lavoro forzato».
«La stessa Aung San Suu Kyi lo ha detto chiaro, “il mio rilascio non basta a parlare di dialogo. L’unico segno di un’apertura reale sarà quando il mio popolo potrà esercitare le libertà fondamentali”», conclude Brighi. Le premesse ci sono, l’opposizione non è al silenzio: «Tra marzo e maggio s’è stata una grande ondata di scioperi nelle zone industriali intorno a Rangoon», la ex capitale: «Erano scioperi per il salario. In diversi casi gli operai hanno anche ottenuto di far riassumere i sindacalisti che erano stati licenziati. L’opposizione continua a condurre un lavoro sotterraneo importante. A testimoniarlo, la settimana scorsa nello stato karen – territorio birmano – è stato proclamato il “parlamento del popolo”: comprende i rappresentanti eletti nel 1990 (disconosciute dal la giunta militare, ndr) e quelli eletti dalle tre nazionalità, Karen, Karenni e Mon. Questo significa che l’opposizione ha un progetto, quello di uno stato federale democratico».

0 comments

Leave a Reply

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.

Sign In

Reset Your Password