Le ultime parole del mondo

Lingue che rischiano di morire, idiomi in via di estinzione, voci che si stanno spegnendo per sempre. K. David Harrison è andato a cercarli in un lungo viaggio attraverso il pianeta dall’Australia alla Siberia al Sudamerica. Ha raccolto un patrimonio di canti, saperi, storie tramandate con vocabolari millenari e sconosciuti Per dimostrare che parlare non significa solo comunicareGli indigeni dello stretto di Torres si pongono il problema di tradurre termini come computerCarlo V diceva: usa lo spagnolo con Dio, l’italiano con la tua amante, l’inglese con le oche

Lingue che rischiano di morire, idiomi in via di estinzione, voci che si stanno spegnendo per sempre. K. David Harrison è andato a cercarli in un lungo viaggio attraverso il pianeta dall’Australia alla Siberia al Sudamerica. Ha raccolto un patrimonio di canti, saperi, storie tramandate con vocabolari millenari e sconosciuti Per dimostrare che parlare non significa solo comunicareGli indigeni dello stretto di Torres si pongono il problema di tradurre termini come computerCarlo V diceva: usa lo spagnolo con Dio, l’italiano con la tua amante, l’inglese con le oche Ogni lingua è un angolo di mondo. E le parole non servono solo a comunicare la realtà, ma la creano. Perché tutto ciò che esiste è nel linguaggio e ciò che non è più nominato smette di vivere. Le idee, le emozioni, i sentimenti, le istituzioni degli uomini, ma anche le cose, gli oggetti, i luoghi sono in realtà modi di essere della parola, sedimentati dal tempo. In questo senso ogni lingua è un´eredità, come diceva Ferdinand de Saussure, l´inventore della linguistica moderna. E ogni lingua che scompare è un patrimonio che va perduto, un pezzo di umanità che tace per sempre. 
Proprio agli idiomi a rischio di estinzione il linguista americano K. David Harrison dedica il suo ultimo libro The Last Speakers: The Quest to Save the World´s Most Endengered Languages, un affascinante e avventuroso viaggio attraverso le parole che il pianeta rischia di lasciarsi sfuggire per sempre. Dalla Siberia agli altipiani boliviani, dalla Nuova Guinea fino alle isole linguistiche dell´Occidente. Quelle che oggi rischiano di essere sommerse dalla marea montante della globalizzazione e dal suo monolinguismo. Che riduce le voci del pianeta a una cattiva declinazione dell´inglese. Una formattazione del pensiero che sacrifica le diversità in nome della praticità. È il paradosso di oggi. Comunichiamo sempre di più, ma le parole per farlo diminuiscono. E così giorno dopo giorno molte comunità adottano le lingue dominanti lasciando morire quelle native. 
Spesso consegnate unicamente alla tradizione orale, a un passa parola millenario che il rumore della civiltà tecnologica tende a coprire. E non è solo una questione di termini, ma anche e soprattutto di contenuti. Di tutti quei saperi, lessici, tassonomie, sensazioni, storie che altrimenti non conosceremmo. E in questo senso il destino delle lingue è strettamente legato a quello delle specie, le cosiddette biodiversità. Molte ci sono del tutto sconosciute. Come i loro nomi. Saperi botanici, chimici, farmacologici, agricoli, tecniche di caccia, di pesca sparirebbero per sempre con gli ultimi parlanti. Perché non tutto è traducibile. E una lingua non vale l´altra. 
In questo senso il fatto che l´inglese sia diventato l´idioma del villaggio globale, non è solo un vantaggio, ma un problema. Proprio così recitava il titolo di un importante servizio apparso qualche tempo fa sulla Herald Tribune e dedicato alle derive linguistiche del dominio imperiale americano. Siamo sicuri insomma di poter fare a meno di tanta ricchezza? A questa domanda – che è il leit motiv del libro – Harrison risponde con un secco no. Le lingue a rischio di estinzione si devono e si possono salvare. Cercando di incrementarne il valore, il prestigio, l´appeal agli occhi dei parlanti, ma anche a quelli degli altri. Facendo crescere la quotazione delle cosiddette parlate minori nel mercato mondiale dei linguaggi. Riconoscendo a ogni lingua una sua vocazione, una destinazione, una tipicità. Non tutte le lingue possono dire tutto a tutti, ma ciascuna può avere qualcosa da dire. 
Carlo V, che non riuscì mai a imparare il latino, ma sulla globalizzazione la sapeva lunga, visto che sul suo regno il sole non tramontava mai, diceva che si dovrebbe parlare spagnolo con Dio, italiano con la propria amante, francese con il proprio amico, tedesco con i soldati, inglese con le oche, ungherese con i cavalli e boemo con i diavoli. 
Forse per salvare gli idiomi a rischio bisogna prendere esempio dagli indigeni dello stretto di Torres, uno dei paradisi dell´antropologia, che si pongono il problema di rendere più contemporanea la loro lingua, creando nuove parole per tradurre termini come computer. Un problema che, peraltro, neanche l´italiano ha risolto. In realtà per i Papua come per noi il problema è lo stesso. Quando mancano le parole a mancare è il pensiero.

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