La stagione delle arance sta per cominciare, ma nove mesi dopo le violenze gli africani non sono ancora tornati nel paese della Piana di Gioia Tauro. Per la prefettura può restare solo chi ha una casa e un regolare permesso di soggiorno, tutti gli altri via. Il governo non ha mantenuto nessuna delle promesse fatte a gennaio quando assicurò la creazione di un centro di accoglienza. E tra poche settimane a Rosarno si torna a votare
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L’attesa di Rosarno

La stagione delle arance sta per cominciare, ma nove mesi dopo le violenze gli africani non sono ancora tornati nel paese della Piana di Gioia Tauro. Per la prefettura può restare solo chi ha una casa e un regolare permesso di soggiorno, tutti gli altri via. Il governo non ha mantenuto nessuna delle promesse fatte a gennaio quando assicurò la creazione di un centro di accoglienza. E tra poche settimane a Rosarno si torna a votare

La stagione delle arance sta per cominciare, ma nove mesi dopo le violenze gli africani non sono ancora tornati nel paese della Piana di Gioia Tauro. Per la prefettura può restare solo chi ha una casa e un regolare permesso di soggiorno, tutti gli altri via. Il governo non ha mantenuto nessuna delle promesse fatte a gennaio quando assicurò la creazione di un centro di accoglienza. E tra poche settimane a Rosarno si torna a votare
ROSARNO (Rc) – Lasciamo subito stare le promesse. Quelle di un intervento dello Stato che avrebbe rimesso a posto le cose, creato un centro di raduno per gli immigrati e magari pensato anche a un modo per avviarli al lavoro, sottraendoli così allo sfruttamento dei caporali. Ecco, lasciamole perdere. Finiti i giorni della follia, ripulito il paese dagli africani che avevano osato ribellarsi, a Rosarno lo Stato si è subito dimenticato delle belle parole spese solo qualche mese fa. Lo sa bene mamma Africa. Ogni giorno che Dio manda in terra lei sale sulla sua Punto grigio metallizzata e si mette in giro per le strade del paese. Anche lei va a caccia di immigrati, ma per sfamarli. Quando ne avvista qualcuno che cammina lungo la nazionale dà due colpi di clacson : «Che ti serve? Oggi ho latte, carote e un po’ di pasta». L’uomo la guarda e dopo un attimo di incertezza la faccia gli si allarga in un sorriso sincero. «Ciao mamma Africa», dice avvicinandosi alla macchina per afferrare la busta di plastica piena di cose da mangiare. 
La scena si ripete più volte nell’arco della stessa mattinata. Se non lungo la strada principale, per le stradine del paese dove gli africani che hanno potuto hanno preso in affitto una casa. Nuovo colpo di clacson e le porte si aprono facendo uscire facce nere e sorridenti. Il più delle volte sono donne che chiacchierano sottovoce con mamma Africa. A ciascuna lei porge la busta con il pane, il latte e la verdura. E qualche volta, di nascosto, allunga anche dieci euro. «Sono povera tra i poveri e clandestina tra i clandestini, perché io questo lavoro lo faccio senza nessuna autorizzazione. Ma ci provassero e fermarmi», dice con fermezza.

Il patto si è rotto
Insieme a Caritas, ai giovani dell’Osservatorio dei migranti Africalabria e ad alcune Ong, con i suoi 83 anni suonati e portati alla grande Norina Ventre è una delle poche certezze su cui gli immigrati di Rosarno possono contare. Il soprannome di mamma Africa se l’è guadagnato sul campo dando da mangiare alle centinaia di extracomunitari che ogni anno, quando comincia la stagione delle arance e dei mandarini, piovono sulla Piana di Gioia Tauro in cerca di lavoro. Per una vita africani e rosarnesi si sono mantenuti a vicenda nel silenzio assoluto. Poi, a gennaio scorso, qualcosa si è rotto. Stufi di subire l’ennesima provocazione gli africani si sono ribellati manifestando per le vie del paese incendiando macchine e cassonetti. I rosarnesi hanno risposto dando vita a un’allucinante caccia all’uomo che ha fatto sparire gli africani dalla piana di Gioia Tauro e catapultato il paese sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Rosarno come l’Alabama degli anni ’60. Da quei giorni dire Rosarno e dire razzista è stato praticamente la stessa cosa, un’etichetta che i rosarnesi non hanno mai accettato. Dopo quei fatti la procura di Palmi ha indagato 34 persone tra caporali e datori di lavoro per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, risultato ottenuto anche grazie alle testimonianze rese ai magistrati dagli stessi immigrati. 
Inchieste a parte, nove mesi dopo la cacciata degli africani se chiedi alla gente di Rosarno cosa è cambiato, la risposta è uguale a quella che ti dà mamma Africa: «Niente, ci hanno abbandonati come sempre. Ma perché a gennaio il governo non lo sapeva che qui c’erano migliaia di persone che vivevano nei ghetti? E che ha fatto?».

«La situazione? E’ peggiorata»
Nel suo ufficio all’interno della chiesa della Matrice a Polistena, anche don Pino De Masi allarga le braccia. «La situazione se possibile è anche peggiorata rispetto a gennaio», spiega il vicario della diocesi di Oppido-Palmi e referente di Libera. «Lo Stato ha detto di non voler più i ghetti e va anche bene, ma questo vuol dire che gli immigrati che non riescono a trovare in affitto una casa dormono nelle macchine o sono sbattuti in qualche casolare in campagna». La vera novità è che gli africani a Rosarno ancora non ci sono. L’anno scorso di questi tempi per le strade del paese già se ne contavano più di mille. Oggi sono al massimo 150, 160, un centinaio dei quali ormai residenti che si aggiungono alla folta comunità di rumeni, bulgari e ucraini presenti in paese. Stanno arrivando proprio in queste ore, in gruppi di tre, quattro persone al massimo. Molti di loro vengono dalla Campania, dai campi e dai cantieri edili del litorale domiziano e sperano di trovare lavoro con la raccolta delle arance e dei mandarini. Ma gli basta fiutare l’aria per capire che non è cosa. Nelle scorse settimane il prefetto di Reggio Calabria ha tenuto una serie di riunioni con i sindaci della Piana, i rappresentanti della Regione e della Protezione civile dove sono stati messi paletti ben precisi: in paese può stare solo chi ha il permesso di soggiorno ed è in grado di affittare una casa. Tutti gli altri via. E la voce deve essersi sparsa rapidamente. Nel tentativo di trovare una soluzione a Dorsi di Rizziconi, altro paese della Piana, la Caritas si è offerta da garante con gli abitanti chiedendo loro di affittare casa agli africani a un prezzo onesto: 50 euro al mese. E in molti hanno accettato. Ma i posti non bastano per tutti. «Quest’anno verranno in 500, 600 al massimo», spiega infatti don Pino De Masi confermando una stima che qui fanno in molti. 
Del resto non potrebbe essere altrimenti. Degli impegni presi dal governo dopo la rivolta di gennaio, sono pochi quelli mantenuti. I due ghetti in cui vivevano ammassati migliaia di africani non ci sono più. L’ex Rognetta, la fabbrica abbandonata nel cuore del paese, è stata abbattuta e tra pochi giorni cominceranno i lavori per trasformare l’area di 8000 metri quadrati in un mercato con un campo sportivo coperto da una struttura tensostatica. Costo dell’opera: 930 mila euro. L’ex Opera Sila, invece, dove gli immigrati dormivano in tende montate dentro i silos, è stata ripulita e adesso è chiusa. Fine dei lavori. Niente infatti è stato fatto per l’altro progetto annunciato, quello più importante, che prevedeva la costruzione di un centro per migranti dove si trova l’ex cementificio Beton Medma, in alcuni terreni confiscati alla ‘ndrangheta, la cui presenza in paese è pesantissima. La struttura prevede un centro per la formazione al lavoro degli immigrati, un ambulatorio e un ‘villaggio della solidarietà’ con 16 moduli abitativi in grado di ospitare fino a 150 posti letto. «Sarà un punto in cui far incontrare domanda e offerta di lavoro, non possiamo più tollerare che nelle aziende si sfrutti il lavoro nero», spiega il prefetto Domenico Bagnato, il commissario straordinario che negli ultimi due anni ha retto il comune dopo lo scioglimento della precedente giunta per infiltrazioni mafiose. I due milioni di euro necessari per realizzare i lavori erano stati promessi dal Viminale per lo scorso mese di giugno, ma ancora non si sono visti. A bloccare tutto, a quanto pare, è stato il ricorso presentato da una delle ditte escluse dall’appalto. Se e quando verrà realizzata, comunque, anche in questa struttura avranno accesso solo gli immigrati con il permesso di soggiorno.

La concorrenza delle «tunisine» 
La verità è che gli africani, grazie a paghe che non superano i 25 euro al giorno, per anni hanno permesso alle aziende agricole della Piana di Gioia Tauro di sopravvivere a una crisi che altrimenti le avrebbe soffocate. E che continua ancora oggi, al punto che molte aziende potrebbero decidere di rinunciare a cogliere le arance. «La situazione ormai è drammatica» conferma Lucio Dattola, presidente della Camera di commercio di Reggio Calabria. «Da anni il settore è in difficoltà per la concorrenzadei paesi del bacino del Mediterraneo, dove la manodopera costa meno di quanto viene pagata qui». Le arance della Tunisia costano meno di quelle italiane e costringono i produttori di casa nostra a venderle a non più di 5 centesimi al chilo. Delle 8.000 aziende agricole presenti nella provincia di Reggio Calabria, circa 2.000 si trovano nella Piana di Gioia Tauro. «Ma si tratta di aziende piccole, di uno massimo due ettari ciascuna e spesso con un solo addetto», prosegue Dattola. «Qui non esiste il latifondo, e le aziende con più di dieci ettari sono al massimo una ventina». Anche per questo far fronte alla concorrenza proveniente dall’altra sponda del Mediterraneo è difficile. «Per i produttori continuare così è impossibile – prosegue Dattola – chi può allora cambia pelle e cerca di avviare un’azienda di trasformazione producendo succo d’arancia, chi non ci riesce invece preferisce lasciare le arance sugli alberi».
Negli anni passati in molti hanno fatto allegramente quadrare i conti grazie alle «arance di carta», le truffe fatte ai danni dell’Unione europea moltiplicando miracolosamente i raccolti per avere maggior contributi. Un’inchiesta condotta sempre dalla Procura della repubblica di Palmi arriverà nei prossimi giorni all’udienza preliminare che dovrà decidere l’eventuale rinvio a giudizio di 350 agricoltori accusati proprio di truffa ai danni dell’Unione europea messa in atto con false fatturazioni. Da tre anni però, anche Bruxelles si è svegliata e ha cambiato i criteri per l’assegnazione dei contributi: non più sulla base della presunta produzione, bensì su quella degli ettari coltivati.
Per uscire dalla crisi del settore agrumicolo è chiaro che non basta neanche contare sul lavoro degli africani e sulle loro paghe da fame. Tanto più che quest’anno per gli agricoltori sarà ancora più difficile impiegare manodopera illegale. «La prefettura ha imposto controlli più severi nelle aziende, dove potrà lavorare solo chi ha un regolare contratto», aggiunge don Pino De Masi. Costretta a specchiarsi con i propri problemi, Rosarno in questi giorni è come sospesa in attesa di capire cosa accadrà in futuro. Un’occasione importante per voltare pagina ci sarà il prossimo 28 novembre, quando per la prima volta dopo due anni di commissario straordinario i rosarnesi saranno chiamati a scegliere l nuovo sindaco. Per il sacerdote di Libera si tratta di un appuntamento che Rosarno non può permettersi di mancare. «E’ un’occasione di riscatto per il paese – dice -. Un modo per lasciarsi alle spalle le brutte storie di questi mesi».

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