La tendopoli che sfida Rabat

Un gigantesco accampamento in mezzo al deserto contro la violazione dei diritti civili

da parte di Rabat. I soldati marocchini lo circondano, ma la protesta non si ferma.

«Siamo arrivati. Questo è il controllo della polizia sahrawi». Un boato si scatena dentro il furgone. Oltrepassati i tre check point marocchini, eccoci a Gdeim Izik, il «campo della dignità », come lo hanno ribattezzato i sahrawi che lo hanno messo in piedi più di tre settimane fa.

Un gigantesco accampamento in mezzo al deserto contro la violazione dei diritti civili

da parte di Rabat. I soldati marocchini lo circondano, ma la protesta non si ferma.

«Siamo arrivati. Questo è il controllo della polizia sahrawi». Un boato si scatena dentro il furgone. Oltrepassati i tre check point marocchini, eccoci a Gdeim Izik, il «campo della dignità », come lo hanno ribattezzato i sahrawi che lo hanno messo in piedi più di tre settimane fa. Una distesa a perdita d’occhio di jaimas – le tende tradizionali dei nomadi – accoglie il visitatore. Sono 8.000, e ospitano circa 20mila persone. Una specie di «stato nello stato», a 12 chilometri da Al Aaiun, capitale amministrativa del Sahara Occidentale controllato dal Marocco.
Nato in modo spontaneo il 10 ottobre scorso, il campo sahrawi è cresciuto a dismisura, superando le aspettative dei suoi stessi organizzatori. I militari marocchini lo tengono strettamente sorvegliato: hanno eretto un muro tutto intorno, lasciando un unico varco d’ingresso. Controllano scrupolosamente ogni macchina per impedire l’accesso agli stranieri. In particolare bloccano i giornalisti, ai quali chiedono un’autorizzazione speciale che però il ministero della comunicazione di Rabat non rilascia a nessuno. Per entrare, non c’è altro modo che il sotterfugio: chi scrive si è nascosto nel fondo di un furgone, sotto una coperta, sopra la quale erano a sua volta seduti alcuni passeggeri.
«Padroni del nostro destino»
Il campo è gremito: uomini, donne, vecchi, bambini. Le tende sono accatastate le une sulle altre. Il clima è festoso. «Per la prima volta, mi sento a casa mia, in un territorio libero», dice un ragazzo. «Questo è il nostro stato», gli fa eco un altro. Per gestire l’organizzazione di quella che è diventata una vera e propria cittadina, gli abitanti si sono dotati di tre comitati: uno è incaricato di negoziare con il Marocco, un altro degli aspetti relativi alla sicurezza, un altro ancora di quelli più strettamente organizzativi (sanità, alimenti, spazzatura). La genesi del campo la spiega Daich Edafi, membro del comitato dei negoziatori. «Abbiamo fatto presente più volte ai funzionari marocchini le nostre rivendicazioni. Abbiamo detto loro che il nostro diritto allo studio, a un lavoro, a un alloggio non sono garantiti. E che, in quanto sahrawi, siamo discriminati. Loro non ci hanno mai dato risposte adeguate. Così, il 10 ottobre abbiamo deciso di spostarci nel deserto». La data non è stata scelta a caso: la carovana di macchine – erano 80 all’inizio, ognuna della quali portava cinque tende – si è mossa da Al Aaiun alle 10 di mattina del 10 ottobre «10/10/2010 alle 10», sottolineano i membri del comitato, quasi a voler dare una simbologia cabalistica al loro gesto.
Le loro rivendicazioni sono di natura socio-economica. Hanno scelto di andare via dalla città per rendere visibile la loro protesta. Pian piano, il campo si è ingrandito. Alle prime tende se ne sono aggiunte altre. E poi altre ancora, di gente proveniente anche da più lontano, dalle altre città del Sahara Occidentale occupato. I marocchini sono stati presi alla sprovvista. Quando il campo era ormai strutturato, hanno eretto i blocchi. E hanno cercato di impedire l’accesso. Fino alla tragedia del 24 ottobre: sparando contro una macchina che si apprestava a entrare, i militari hanno ucciso Nayem El Garhi, un ragazzo di 14 anni che è già diventato il simbolo della protesta. Dopo la morte di Nayem, Rabat ha eretto il muro. Ora non spara più: semplicemente controlla le macchine e impedisce l’ingresso di tutti quei beni e prodotti che potrebbero portare un po’ di sollievo alla vita del campo.
Perché la quotidianità a Gdeim Izik è precaria: non ci sono bagni, la luce è affidata alle candele, l’infermeria è una stanza minuscola con un mucchio di medicinali. «I marocchini non fanno entrare il cemento con cui potremmo costruire delle toilette. A volte requisiscono quello che trovano nelle macchine: cibo, medicinali o vari altri oggetti. Ci vogliono prendere per stanchezza, ma non ci riusciranno», dice Bashir, responsabile della distribuzione di viveri. Che aggiunge: «È la prima volta in 35 anni che ci troviamo in un territorio nostro, in cui siamo padroni del nostro destino».
La protesta guidata dai giovani
Quanto sono presenti nello spirito di questa protesta inedita le rivendicazioni sull’autodeterminazione del popolo sahrawi? Molto, a giudicare dalle parole che si sentono nelle tende, dove l’idea di un Sahara Occidentale indipendente dal Marocco riecheggia quasi in ogni discorso. «Poco, per il momento. Le nostre richieste sono di natura socio-economica», frenano i membri del comitato, che glissano su ogni domanda relativa allo status auspicato per il territorio in cui vivono. «Questa questione è materia dei negoziati politici fra il Marocco e i rappresentanti del popolo sahrawi, cioè il Fronte Polisario». Ma poi, a parte la questione delicata dello status, le richieste del comitato sono difficilmente accettabili da parte di una monarchia che ha costruito la propria legittimità sull’occupazione dell’ex Sahara spagnolo: «Vogliamo che siano garantiti i nostri diritti. Ma vogliamo anche essere padroni delle risorse del nostro territorio, dalla pesca ai fosfati. Non vogliamo che queste siano controllate da Rabat». «Sareste disposti ad accettare il piano di larga autonomia all’interno del Marocco proposto dal re?». «Il contesto è meno importante della sostanza. Per il momento, il piano proposto dal re è un guscio vuoto», risponde un altro membro del comitato.
Gli organizzatori del campo di Gdeim Izik sono tutti giovani, intorno ai trent’anni, e non sono noti come attivisti per i diritti umani o per l’indipendenza del Sahara Occidentale. Sono una nuova leva, nata e cresciuta sotto l’occupazione marocchina. Oggi si pongono come portavoce di un malcontento che è diffuso. E che il Marocco ha difficoltà a gestire. Rabat ha risposto accusando i soliti burattinai occulti: il Fronte Polisario e il suo protettore di sempre, l’Algeria. Ha poi cercato di smorzare la protesta con un’accurata politica di divide et impera, fatta di offerte di lavori e di lotti di terreno a quanti avessero accettato di non allontanarsi dalla città. Ma la protesta non si è affievolita. Anzi si è rafforzata. E il blocco mediatico imposto dalle autorità è un segno evidente di nervosismo. Domenica mattina, le autorità marocchine hanno impedito lo sbarco a otto attivisti spagnoli provenienti in traghetto dalle Canarie. Dopo aver organizzato al porto un comitato di accoglienza di coloni che brandivano bandiere marocchine e insultavano gli spagnoli, li hanno rimandati indietro a bordo della stessa nave.
«La situazione si può descrivere così: ci sono due contendenti, ognuno dei quali ha un dito nella bocca dell’altro. Entrambi si mordono. Chi urla per primo, perde», riassume Ennaama Asfari, attivista per i diritti umani che passa le sue giornate nel campo. I due contendenti si guardano in cagnesco. A sentire i membri del comitato, i negoziati sono di fatto inesistenti, anche se il Marocco ha inviato nella regione il potentissimo ministro degli interni Taieb Charkaoui. «Non ci propongono nulla. E comunque noi non ci siederemo al tavolo fintanto che non avranno tolto il blocco militare intorno al campo». Ognuno aspetta che l’altro faccia la mossa sbagliata. Ma intanto i giorni passano. E, invece di diminuire, la popolazione all’interno della tendopoli aumenta. Nonostante le ristrettezze, nonostante il blocco, nonostante le palesi difficoltà. «Ci possono togliere tutto. Possono cercare di prenderci per fame e per sete. Ma non ci toglieranno mai la nostra dignità», grida un ragazzo, mentre con la mani fa il segno della v di vittoria. A guidicare dall’entusiasmo diffuso, tutto lascia pensare che alla fine sarà il Marocco a urlare per primo. 20MILA PERSONE Tante sono
oggi le presenze nella tendopoli di Gdeim Izik. All’inizio, il 10 ottobre scorso, erano 400 tende, ora ce ne sono 8.000. Nel campo non ci sono luce né servizi igienici

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