Oggi vengono associati ai primi vagiti degli Small Faces o all'energia degli Who. Ma nella Londra che si affacciava agli anni Sessanta furono più di un movimento musicale Figli di proletari e di borghesi, i "modernisti" avevano una divisa, uno stile di vita e leggevano Sartre. A cinquant'anni dall'esplosione del fenomeno, un libro ripercorre la storia di quegli "Absolute Beginners" che giravano in Vespa o Lambretta e dicevano: "Spero di morire prima di diventare vecchio" ">

Il volto pulito della working class

Oggi vengono associati ai primi vagiti degli Small Faces o all’energia degli Who. Ma nella Londra che si affacciava agli anni Sessanta furono più di un movimento musicale Figli di proletari e di borghesi, i “modernisti” avevano una divisa, uno stile di vita e leggevano Sartre. A cinquant’anni dall’esplosione del fenomeno, un libro ripercorre la storia di quegli “Absolute Beginners” che giravano in Vespa o Lambretta e dicevano: “Spero di morire prima di diventare vecchio”

Oggi vengono associati ai primi vagiti degli Small Faces o all’energia degli Who. Ma nella Londra che si affacciava agli anni Sessanta furono più di un movimento musicale Figli di proletari e di borghesi, i “modernisti” avevano una divisa, uno stile di vita e leggevano Sartre. A cinquant’anni dall’esplosione del fenomeno, un libro ripercorre la storia di quegli “Absolute Beginners” che giravano in Vespa o Lambretta e dicevano: “Spero di morire prima di diventare vecchio” Juliette Gréco, Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir neanche immaginavano quanto fossero rock. E neanche Jean-Paul Belmondo. C´erano mod, mezzo secolo fa, che guardavano gli esistenzialisti francesi come icone. Ritagliavano e archiviavano le foto, li ammiravano nei documentari tv, si portavano al cinema i taccuini da disegno su cui schizzavano i dettagli dei loro fuseaux, delle giacche, dei paletot. Li consideravano il massimo del cool per la loro filosofia di vita, l´abbigliamento sobrio ed elegante e perché il jazz era la loro colonna sonora. Oggi i mod vengono associati a fenomeni musicali, ai primi vagiti degli Small Faces, alla travolgente energia degli Who, al romantico revival del genere a opera dei Jam di Paul Weller, ma nella Londra che si affacciava agli anni Sessanta, e in molte altre città inglesi, quello dei «modernisti» fu un movimento radicato e organizzato, più di una sottocultura, come spesso viene liquidata. Coinvolgeva i figli dei proletari e dei borghesi e fu ben più dilagante dell´esistenzialismo francese, se non culturalmente almeno a livello di costume, come spiega Mod: vita pulita in circostanze difficili, il libro di Terry Rawlings che rispetto all´edizione inglese ha anche un´appendice curata dal giornalista Luca Frazzi dedicata alla storia del modernismo italiano con un´intervista al suo ideologo, Tony Face Bacciocchi.
«I primi avvistamenti documentati di veri e propri mod avvennero cinquant´anni fa nel corso di lunghe nottate di jazz in un club che si chiamava Flamingo», racconta Rawlings, e pare proprio di sentir parlare del Tabou di Saint Germain-des-Près dove quindici anni prima la Gréco ascoltava Miles Davis. Ricchi o proletari che fossero, i mod adottarono una divisa, uno stile di vita e una colonna sonora: abiti attillati fatti a mano e i caratteristici parka, musica americana imparentata con jazz, blues e rhythm´n´blues, occasionalmente ska giamaicano, scooter italiani (Vespa e Lambretta sono in bella evidenza nella documentazione fotografica di questo volume), weekend tirati fino all´alba (con l´aiuto di qualche pillola di anfetamina acquistata di contrabbando). «Quello che è importante ricordare è l´impatto avuto dalla scuola d´arte sulla formazione del movimento mod e di Soho. Eravamo decisamente più giovani degli appassionati di jazz che noi consideravamo sciatti. Volevamo un look diverso», racconta uno dei testimoni dell´epoca.
«Il movimento dei mod era più complesso di quanto non si creda e non era solo legato al modernismo dei figli di papà», ricorda John Waters, che nei primi anni Sessanta era membro attivo di quella cultura. «C´erano gang in tutta la città che prendevano il nome dai vari quartieri, composte da un numero che andava dalle cinquanta alle cento persone. E guai a oltrepassare i confini, ne sarebbero nate zuffe che neanche la polizia riusciva a sedare. Ci si incontrava in bar e pub, meticolosamente vestiti in abito di mohair, cappotto col collo di velluto e quel cappello che noi chiamavamo “blue beat”. La nostra colonna sonora? I classici del rhythm´n´blues, Solomon Burke, Dusty Springfield e gli Who di I Can´t Explain».
La musica degli Who fu la più efficace colonna sonora dell´era mod. Pete Townshend, il leggendario chitarrista della band, ricorda: «Per qualche mese uscii con la sorella più piccola di Roger Daltrey, il nostro cantante. Eravamo divorati dalla smania di diventare dei veri mod, come i nostri fratelli maggiori che già avevano la Lambretta. La cultura mod era entrata nelle nostre famiglie, nel nostro quartiere e nella nostra cultura. Quando gli Who si chiamavano ancora High Numbers, già ci vestivamo accuratamente da mod. Per noi era una divisa, voleva dire: faccio parte di un movimento che ama vestirsi bene, popolato da creature effeminate che in realtà sono uomini duri, ragazzi che amano il blues e il jazz di New Orleans, che alla marijuana preferiscono l´anfetamina. Stavamo definendo una nuova forma di ribellione che si lasciava alle spalle James Dean e Elvis».
Più di I Can´t Explain, fu My Generation a diventare un inno (poi transgenerazionale), grazie all´urlo «Spero di morire prima di diventare vecchio». E Quadrophenia, l´opera rock degli Who del ´73 (che nel 1979 diventò un film diretto da Franc Roddam), è la più matura riflessione “postuma” sull´era mod che sia mai stata fatta. «I protagonisti fanno parte della prima generazione del dopoguerra, giovani che cercavano un´appartenenza e volevano affermare la loro diversità», spiega Townshend, alludendo alla medesima generazione che ispirò nel ´59 il romanzo Absolute Beginners di Colin MacInness (poi diventato nel 1986 un cult movie di Julien Temple). «Le ragazze si vestivano come i ragazzi, i maschi usavano l´eyeliner. Eravamo in cerca di nuovi ideali e ci rendevamo conto che i vecchi metodi educativi erano ormai defunti. Quadrophenia è l´espressione di un conflitto insanabile tra i padri e i figli della guerra». Townshend ricorda anche che ai primi concerti degli Who al Marquee di Soho c´era un pubblico misto di etero, gay e bisex come fino ad allora non si era mai visto in una sala da concerto. «I mod avevano delle innegabili “morbidezze” femminili, una ricercatezza che non era esattamente dandy ma di certo piaceva alle ragazze più della durezza di rocker e skinhead». 
Steve Marriott, il leader degli Small Faces morto nel 1991 a quarantaquattro anni, fu la prima icona mod della musica rock. «Mettevo da parte ogni centesimo per andarlo a spendere a Carnaby Street, dove c´erano un paio di negozi che importavano abiti dalla Francia», raccontava. «All´epoca avevo uno scooter e lo tenevo davanti casa. Ero ossessionato». Londra era preda delle incursioni dei mod, Paul Weller iniziava le elementari e già voleva essere uno di loro. Non meraviglia che quando i suoi Jam diventarono uno dei gruppi di punta della new wave inglese negli anni Settanta la sua eleganza e le inflessioni del suo rock facessero immediatamente parlare di mod revival. Weller, che è stato ribattezzato “The Modfather”, sottolinea l´importanza del taglio nello stile mod. «Grazie a Dio ho ancora tutti i capelli, altrimenti il mio look sarebbe un disastro. Anche i miei ragazzi li hanno sempre voluti lasciare lunghi ai lati della testa, deve essere nel nostro dna. Noi figli della classe operaia – esattamente come negli anni Sessanta – avevamo tre imperativi: il football, la musica e la moda. Da ragazzino ero soggiogato dalle immagini dei primi mod, guardavo quei sedicenni abbigliati di tutto punto e già mi sentivo nel loro mondo, nella loro divisa». Il taglio di cui parla Weller – che il Bowie di Ziggy Stardust adottò in versione glam e perfino Liam Gallagher degli Oasis avrebbe ostentato con fierezza molti anni dopo – fu quello lanciato negli anni Sessanta proprio da Steve Marriott degli Small Faces.
Paul Smith, sessantaquattro anni, lo stilista inglese che oggi vende le sue creazioni in oltre cinquanta paesi del mondo, confessa di essersi ispirato moltissimo a quello stile, ma anche di essere cresciuto a contatto con il movimento. «Iniziai a disegnare abiti frequentando The Bell, un pub di Nottingham che era il tempio dei mod», racconta. Nel nuovo millennio è stato Hedi Slimane, lo stilista che ha rilanciato Dior Homme e ora ha abbandonato la moda privilegiando il lavoro di fotografo, a ridefinire l´estetica mod scegliendo il perverso Pete Doherty come uomo immagine e irradiando lo stile anni Sessanta – riveduto, corretto e minimalizzato – nel mondo del nuovo rock, dagli Strokes ai Franz Ferdinand. Che non sono band rivali, come gli Small Faces, che erano i mod dominanti della parte orientale di Londra, e gli Who, che controllavano il versante opposto. Uno contro l´altro, a colpi di rock, fino al 1968, quando il mondo prese un´altra piega.

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