L'ultimo volume di Edmondo Berselli «L'economia giusta» può essere considerato come il suo testamento politico, segnato da una adesione ai principi del libero mercato e di una compiuta democrazia politica che ha il compito di definire le regole e gli strumenti per temperare gli effetti negativi del potere abnorme della finanza. Una visione in sintonia con una cultura politica democratica che ha sempre guardato con attenzione alle esperienze della socialdemocrazia e del cattolicesimo sociale ">

Il regno DEI GUSTI

L’ultimo volume di Edmondo Berselli «L’economia giusta» può essere considerato come il suo testamento politico, segnato da una adesione ai principi del libero mercato e di una compiuta democrazia politica che ha il compito di definire le regole e gli strumenti per temperare gli effetti negativi del potere abnorme della finanza. Una visione in sintonia con una cultura politica democratica che ha sempre guardato con attenzione alle esperienze della socialdemocrazia e del cattolicesimo sociale

L’ultimo volume di Edmondo Berselli «L’economia giusta» può essere considerato come il suo testamento politico, segnato da una adesione ai principi del libero mercato e di una compiuta democrazia politica che ha il compito di definire le regole e gli strumenti per temperare gli effetti negativi del potere abnorme della finanza. Una visione in sintonia con una cultura politica democratica che ha sempre guardato con attenzione alle esperienze della socialdemocrazia e del cattolicesimo sociale

Spinti dal vivace dibattito che ha suscitato, abbiamo letto anche noi il pamphlet sul L’economia giusta di Edmondo Berselli, apparso postumo per Einaudi (pp. 100, euro 10), e ci siamo molto rattristati. Ci dispiace davvero che una persona così mite e intellettualmente onesta abbia lasciato questo mondo nutrendo così funesti pensieri sul nostro futuro. Tuttavia, senza per questo voler essere cinici, crediamo che un po’ se la sia cercata. Non è possibile frequentare per tutta la vita l’entourage intellettuale che si raccoglie intorno al Mulino e a Repubblica e sperare di restare ottimisti. I suoi maîtres à penser, da Eugenio Scalfari a Romano Prodi, sono così pessimisti sulla nostra capacità di governare collettivamente il processo di riproduzione sociale da aver precipitato in depressione un’intera generazione. Pensiamo solo al gruppo dirigente dell’odierno Partito democratico: centinaia, forse migliaia di persone, cresciute credendo che si potessero coniugare libertà ed uguaglianza, sviluppo e democrazia, si sono ridotte, grazie al loro ammaestramento, a ripetere le vecchissime giaculatorie confindustriali. Che ci vogliono privatizzazioni e liberalizzazioni. Che solo le imprese creano «vera occupazione». Che il lavoro dev’essere meno garantito. Che andare in pensione dopo 35 anni di catena di montaggio è una roba da matti. E tutto ciò dopo essere state indotte a flagellarsi per vent’anni per aver creduto in gioventù nel comunismo – non quello sovietico, badiamo bene, ma quello nostrano: fatto appunto di imprese e servizi pubblici, programmazione economica, case popolari, Statuto dei lavoratori, scuola dell’obbligo e pensioni appena dignitose.

Pensieri deboli
Un’attenuante va concessa: Berselli non era economista, e dunque era obbligato a fidarsi di quel che gli raccontavano i suoi amici circa le magnifiche e progressive sorti di un capitalismo finalmente liberato dai «lacci e lacciuoli» della politica. Gli fa anzi onore che alla fine abbia riconosciuto che «nella società low cost della Borsa euforizzata e delle public companies» la deregulation, invece di avvantaggiare i ceti medi e popolari, ha «favorito, con gravi iniquità, il capitale monopolistico della grande finanza, e accentuato ineguaglianze acute negli assetti sociali», come si legge in questo libro. Ma è inutile piangere sul latte versato: serve piuttosto non perseverare nell’errore. E proprio qui è il problema, perché di errori, nel suo libretto, ce n’è proprio un mucchio. 
Non possiamo darne conto frase per frase, riga per riga: ce ne manca lo spazio. C’è però un punto del ragionamento di Berselli che in un certo qual modo li riassume tutti insieme e perciò si presta ad essere discusso qui. Lo riportiamo con le sue stesse parole: «Nel periodo postbellico, durante gli anni ’50, sono stati gli ingenti incrementi di produttività (e sul piano dei consumi il formarsi di una società di massa finalmente orientata a spendere), a creare la base economica per una ricchezza diffusa. Ma non appena l’aumento di produzione materiale si è rivelato insufficiente a distribuire reddito erga omnes, per evitare cadute dei livelli di benessere che sarebbero risultate insostenibili politicamente, è stato necessario individuare altri strumenti per costituire l’ammontare economico sufficiente a mantenere elevata la domanda aggregata, e quindi i precedenti livelli di reddito per le famiglie e le imprese».
È un passo veramente densissimo, in cui si riassumono tutte le contraddizioni tipiche del pensiero economico mainstream, strutturalmente incapace di comprendere la differenza tra valore d’uso e valore di scambio e, proprio per ciò, indotto a scambiare sistematicamente l’uno con l’altro e ad attribuire all’uno fenomeni e problemi tipici dell’altro. 
Nessun dubbio infatti che siano stati «gli ingenti incrementi di produttività» a creare, negli anni ’50, «la base economica per una ricchezza diffusa». Ma è altrettanto indubbio che, da un punto di vista «fisico» (o, come si legge poco oltre, «materiale»), gli incrementi di produttività si sono tutt’altro che arrestati. La nostra capacità di produrre valori d’uso nell’unità di tempo si è piuttosto ulteriormente accresciuta grazie alle innovazioni tecnologiche. Per non fare che un esempio, il tempo oggi occorrente per produrre un’automobile è solo una frazione di quello che necessitava trent’anni fa, il che equivale a dire che, a parità di tempo, possiamo produrre una quantità multipla di auto. Se poi aggiungiamo che nessuna società occidentale, dalla fine del secondo conflitto mondiale, ha più avuto esperienza di distruzione di dotazioni agricole o industriali, non c’è motivo di supporre che la crisi sia dovuta al fatto che «l’aumento di produzione materiale si è rivelato insufficiente a distribuire reddito erga omnes». Anche perché, se davvero il problema fosse questo, la soluzione sarebbe semplicissima: visto che abbiamo qualche milione di disoccupati e impianti industriali sottoutilizzati, basterebbe che le imprese assumessero e la «produzione materiale» tornerebbe al livello necessario a mantenere il tenore di vita precedente.
Se così non accade, evidentemente c’è dell’altro. E che sia così emerge dalle stesse parole di Berselli: negli anni ’50, infatti, non c’erano solo «ingenti incrementi di produttività», ma anche «una società di massa finalmente orientata a spendere». Marx e Keynes, due autori di cui i suoi amici di Repubblica e del Mulino non hanno mai davvero capito, l’avrebbero certo rimproverato per aver messo questa frase tra parentesi: perché è proprio la spesa che consente ad una società dominata dal modo di produzione capitalistico di metabolizzare gli incrementi di produttività del lavoro. Di per se stessi, infatti, gli aumenti di produttività implicano semplicemente la possibilità di produrre più valori d’uso con meno input di lavoro, cioè in ultima analisi con meno lavoratori. Il problema è che così si incrina la relazione esistente fra produzione e distribuzione, perché «meno lavoratori» significa anche meno redditi, dunque meno domanda; e se un imprenditore non si attende un volume di domanda sufficiente a permettergli di vendere quel che produce ad un prezzo idoneo a remunerare il capitale preso a prestito, preferirà astenersi dal produrre. La forma sociale del valore di scambio retroagisce così negativamente sulla produzione di valori d’uso, inibendo una produzione materiale che sarebbe altrimenti possibile.
Se così stanno le cose, la «produzione materiale» non c’entra nulla. Il guaio, aggiungiamo, è che le ricette che ci dispensano da oltre vent’anni gli economisti amici di Berselli si basano sul medesimo errore: scambiano per un problema «materiale» quello che invece è un problema sociale, che cioè concerne il modo in cui produciamo e distribuiamo la ricchezza. Come spiegare altrimenti le litanie sulla necessità di «lavorare più a lungo» in un momento caratterizzato da ingenti tassi di disoccupazione e dalla tendenza delle imprese a concentrarsi, che produce l’ulteriore espulsione di lavoratori dal ciclo produttivo? Che logica c’è nell’aumentare l’età pensionabile a sessantacinque anni e più, quando le imprese già a cinquant’anni ti vogliono buttare fuori? E come giustificare le esortazioni al «risparmio» quando è evidente che le imprese stanno rinunciando a produrre la ricchezza materiale possibile per carenza di adeguata domanda monetaria? «Ogni sterlina risparmiata è un’occupazione cancellata», sbottò una volta Keynes alla radio, e sono parole che andrebbero riascoltate anche oggi.

Un futuro di povertà
Non vogliamo farla troppo lunga, ma è chiaro, a questo punto, che tutta la perorazione finale di Berselli per indurci ad accettare un presunto ingrigirsi delle nostre prospettive, con un aumento della povertà («o perlomeno con una condizione generale della società in cui non sarà possibile mantenere tutti gli istituti e gli strumenti del welfare»), non ha motivo d’essere. Lasciamo che sia Serge Latouche, questo Achille Loria redivivo, a occuparsi di «costruire una cultura della minore ricchezza» per quelle persone semplici che credono alle sue favole sulla «decrescita felice». Noi, che siamo ancora qui, abbiamo piuttosto bisogno di recuperare fiducia nella nostra capacità di guidare collettivamente il processo sociale di produzione e riproduzione, e di lottare per riacquisirne gli strumenti: più o meno quegli stessi che cinquant’anni fa ci avevano orientato a spendere, permettendoci il «miracolo economico».
Probabilmente, a questo punto, gli amici di Berselli ci contesteranno di essere afflitti da «ambizioni e illusioni pianificatrici» e ci diffideranno – come lui – dall’ignorarne gli «effetti perversi». Ma se aveva ragione Michel Albert a scrivere vent’anni fa che, dopo il tramonto della tragica illusione delle economie pianificate, non si poteva non essere «capitalisti», lasciateci dire, vent’anni dopo, che di fronte alle macerie prodotte dalla non meno tragica illusione dei mercati autoregolantisi non possiamo non tornare a dirci comunisti.

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