Vezio nel suo bar in una foto di qualche anno fa
Roma, cala il sipario sullo storico locale che da Botteghe Oscure si era trasferito in via Tor di Nona. Per decenni ha conservato cimeli e ricordi della storia del Pci, dei suoi leader e dei suoi militanti. Il proprietario è malato e in difficoltà economiche, appello di un volontario che lo assiste
Vezio nel suo bar in una foto di qualche anno fa
Roma, cala il sipario sullo storico locale che da Botteghe Oscure si era trasferito in via Tor di Nona. Per decenni ha conservato cimeli e ricordi della storia del Pci, dei suoi leader e dei suoi militanti. Il proprietario è malato e in difficoltà economiche, appello di un volontario che lo assiste
ROMA – Nessuno è passato per Botteghe Oscure senza fermarsi, prima o dopo, da lui. Chiunque, negli anni gloriosi del Pci, si sia recato nella sede storica del partito, sicuramente ha preso un caffè al bar di Vezio, via dei Delfini 23, davanti a piazza Margana, alle spalle del “Bottegone”, come i frequentatori chiamavano affettuosamente la sede del Partito comunista italiano. Un museo, non un semplice bar. Che per decenni ha conservato l’amarcord del partito. Foto e bandiere, manifesti e locandine, autografi e dediche. Ebbene, non solo quel bar non c’è più dopo un’ordinanza che lo ha sfrattato dal locale dove Vezio Bagazzini lavorava dal 1969, nonostante l’impegno del Comune a dichiararlo “locale di interesse storico”. Adesso non c’è più nemmeno il nuovo bar, quello riaperto nel 2003 in via Tor di Nona e lui, 68 anni, il proprietario-custode di tanti ricordi, versa in pessime condizioni economiche e di salute.
A raccontare gli ultimi sviluppi della vicenda è Alessandro Di Leginio, un assistente penitenziario che, da un mese circa, volontariamente, si prende cura di Vezio, dopo la separazione anche dalla seconda moglie che tuttavia continua a rimanergli costantemente accanto. “E’ affetto da morbo di Parkinson, diabete e ha serie difficoltà economiche. Io vado a casa sua – racconta l’uomo – ma dev’essere aiutato, non ha nemmeno la pensione. Sto facendo il giro degli uffici per cercare di fargliela ottenere”. Per tutte queste ragioni, Vezio ha dovuto chiudere il bar
di Tor di Nona, lo scorso 13 novembre.
“Non ce la faceva più – spiega ancora Di Leginio – mi ha anche raccontato di prepotenze e furti subìti da alcune persone e lui ha deciso di chiudere l’attività. L’altro giorno sono andato nel locale per recuperare foto e manifesti ma ho dovuto prima avvertire i carabinieri perché il bar, da tempo, è frequentato da persone che hanno approfittato di lui”. Alla chiusura della storica latteria – questo era quando aprì, nel 1911 – era stato anche dedicato un ducumentario, Il trasloco del bar di Vezio di Mariangela Barbanente, andato in onda su Sky Planet nel 2005, con le testimonianze di parlamentari, artisti, militanti.
Fino a pochi giorni fa lo si vedeva ancora, ogni tanto, passeggiare per Trastevere, zoppicante e malconcio, sempre però con gli occhi vivaci e la voglia di chiacchierare, sebbene la parola ormai per lui fosse diventata capricciosa. Adesso, le condizioni di Vezio peggiorano di giorno in giorno. Viene da chiedersi che ne sarà di lui, e di quella raccolta di cimeli che ai visitatori del bar hanno illustrato momenti storici e attimi della vita quotidiana del Pci. Le foto dello stesso Vezio con Di Vittorio o con Enrico Berlunguer (il suo grande amore), quella di Roberto Benigni che prende in braccio Berlinguer, le tante matrioske che chi tornava da Mosca era praticamente obbligato a portare come souvenir, le tessere del partito, la foto – con dedica – di Pasolini alla macchina da scrivere, le centinaia di biglietti con dedica scritti da chi si appoggiava al bancone per un maritozzo e un cappuccino.
Un luogo di profonda malinconia, dove bastava una semplice richiesta perché si aprisse un database di aneddoti e citazioni – ma mai pettegolezzi, banditi dalla comunistissima etica del barista. Al massimo le preferenze “da bancone”, chi il caffè e chi il decaffeinato, ma non era quello che a Vezio interessava, né ai suoi avventori affamati di maritozzi e di curiosità, ai quali dispensava perle di nostalgia fra le bandiere rosse attaccate a ogni parete o penzolanti dal soffitto.
Un locale piccolo piccolo, parete a sinistra e bancone a destra, dove la memoria era costretta a stratificarsi perché non c’era più un angolo libero. L’arazzo con il ritratto di Dimitrov, il numero due ai tempi di Stalin. E poi le tantissime foto, alcune con dedica, altre in un bianco e nero ingiallito: Togliatti, Longo, Secchia, Pajetta e Amendola, Mao e Gianmaria Volontè, e ancora Berlinguer ritratto accanto a Claudio Villa, Pio La Torre e Stalin, D’Alema a bordo dell’Ikarus, Guevara con Fidel, e poi i ricordi di chi, passando da quelle parti, aveva voluto a tutti i costi una foto con lui, da Ursula Andress a Raz Degan.
“Uno spaccato della storia politica, sociale e culturale della città”, come dissero gli “Amici del bar di Vezio”, gruppo nato dalla mobilitazione contro lo sfratto da via dei Delfini. Un posto dove, pure, nascevano improbabili cameratismi. Come quando, dopo le manifestazioni degli anni Settanta, anche i poliziotti si andavano a riposare e a bere qualcosa. E magari tiravano quattro calci a un pallone insieme ai “compagni della vigilanza”, gli omaccioni che come cerberi controllavano l’ingresso del Bottegone e si occupavano dell’incolumità dei leader del partito. Lo raccontò lo stesso Vezio, tanti anni fa: “I celerini, prima correvano dietro ai compagni, poi quando avevano finito, si venivano a fare una partitella qui in piazza e si prendevano un caffè. Io li facevo entrare, ma patti chiari: gli dicevo ‘prima vi levate la pistola e la lasciate all’ingresso’, come nei saloon”.
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