Editoria anno zero

Braccio di ferro nella maggioranza sulla finanziaria. Napolitano protesta: «Basta, non si può tagliare tutto. La politica è fare delle scelte. E i giornali devono pubblicare notizie, non chiacchiere». Ecco a cosa può servire il finanziamento pubblico. Nella partita finale sull’informazione Giulio Tremonti ammette il problema ma non ristabilisce né fondi né diritti

Il tempo è scaduto. Oggi pomeriggio o al massimo domani la commissione bilancio della camera dovrà  approvare la finanziaria e decidere se esistono ancora diritti costituzionalmente garantiti come la mobilità , la tutela del patrimonio artistico e del territorio, la salute, l’istruzione, il pluralismo dell’informazione. 

Braccio di ferro nella maggioranza sulla finanziaria. Napolitano protesta: «Basta, non si può tagliare tutto. La politica è fare delle scelte. E i giornali devono pubblicare notizie, non chiacchiere». Ecco a cosa può servire il finanziamento pubblico. Nella partita finale sull’informazione Giulio Tremonti ammette il problema ma non ristabilisce né fondi né diritti

Il tempo è scaduto. Oggi pomeriggio o al massimo domani la commissione bilancio della camera dovrà  approvare la finanziaria e decidere se esistono ancora diritti costituzionalmente garantiti come la mobilità , la tutela del patrimonio artistico e del territorio, la salute, l’istruzione, il pluralismo dell’informazione.  Giorgio Napolitano, in visita in Veneto, non si trattiene e mette il dito nella piaga: «C’è una grande confusione, un grande buio, c’è il vuoto sulle scelte e sulle priorità nella destinazione delle risorse pubbliche». Il monito è esplicito: basta con i tagli lineari al bilancio che distruggono senza costruire nulla: «Abbiamo un debito pesante sulle spalle e dobbiamo contenere la spesa pubblica – riconosce il capo dello stato – ma non dobbiamo tagliare tutto. L’arte della politica consiste proprio nel fare delle scelte». E’ «assurdo», sbotta, che «con un tratto di penna si possano cancellare gli impegni per la cooperazione allo sviluppo. La solidarietà è un imperativo». 
Regioni, comuni, province, pendolari, imprenditori, scuole, università, musei, cinema, perfino Bono Vox o gli agricoltori tanto coccolati dal leghista Zaia, protestano perché il governo ha azzerato tutto. Non c’è né sviluppo né rigore. Il messaggio è chi può si arrangi. 
Ma sapere come lo stato spende o non spende i soldi – se costruisce un siluro o gli argini dei fiumi – non è un’operazione neutra. Non a caso subito dopo Napolitano sottolinea che «le responsabilità dell’informazione sono tante e molto importanti. Ci sono le idee, e poi ci sono le chiacchiere. Per questo bisogna stare sulla realtà. Per esempio, da quanto tempo non leggiamo un’inchiesta sul dissesto idrogeologico? Credo che il giornalismo di inchiesta sia importante. Invece ci sono giornali invasi da gossip». Giusto. Peccato che i tagli di Tremonti lasceranno in vita solo questi, come diciamo nella nostra campagna abbonamenti.
E’ giusto riconoscere che sulla spinta delle opposizioni e dei finiani, l’ultimo maxiemendamento del governo ammette il problema dell’informazione. Dall’Economia hanno aggiunto 60 milioni al fondo editoria, 45 alle radio e tv locali, 5 per i giornali italiani all’estero. Una riduzione del danno che però sa di beffa. Per la fretta, tra l’altro, l’emendamento sui giornali all’estero è stato scritto male. Ma anche così, il fondo editoria arriverebbe a circa 110 milioni. Nel 2008, ultimo dato certificato, erano 414. Un taglio che parla da sé. 
Oggi siamo al momento della verità: facendo pulizia nei contributi, altri 30 milioni potrebbero bastare per salvare i giornali «veri» e si potrebbe così ripristinare il diritto soggettivo, garantendo il credito bancario. Altrimenti il caso può dirsi chiuso.
Associazioni come Mediacoop e Fieg, il Pd, l’Udc e Fli insistono per risolvere il problema una volta per tutte. In commissione ci sono diversi emendamenti che con le coperture più varie sciolgono un nodo così delicato. E’ umiliante però che ogni anno si affronti il problema come se fosse un’urgenza momentanea. Quasi tutti i soggetti interessati hanno accettato la sfida del rigore, della pulizia, della trasparenza nel contributo. E’ onesto dire che in quasi tre anni il governo non ha fatto nulla. Doveva fare chiarezza e ha scelto opacità. Doveva snellire e ha tagliato. Doveva programmare il futuro di un settore decisivo e si è concentrato sui decoder di famiglia e le pubblicità nelle soap-opera di stato. Non è facile. Ma come ricordava il Colle, la politica è fare delle scelte. In questo caso sono lampanti.
Agli amici e ai lettori contrari al finanziamento pubblico si possono dare risposte fuori dalla retorica populista, intellettualmente pigra e «gossipara» che circonda l’argomento. Il finanziamento pubblico lede l’autonomia nel dare o commentare le notizie? I quarant’anni del manifesto dimostrano il contrario. Se non basta, un giornalista certamente autonomo come Marco Travaglio lavora in Rai e ha scritto a lungo su un giornale finanziato dallo stato come l’Unità (un quotidiano, tra l’altro, di partito) senza che questo abbia mai diminuito la sua vis polemica. Il tema dunque non è questo. 
L’autonomia di un giornale è garantita innanzitutto dai suoi lettori. Se non ti legge nessuno, di autonomia ce n’è anche troppa. Oppure troppo poca. Quel giornale esce forse per interessi specifici, perfino individuali.
Il manifesto è l’unico giornale italiano a diffusione nazionale che non ha un editore. Come decine di altre testate in cooperativa (alcune anche più antiche e gloriose) è proprietà dei giornalisti e patrimonio dei suoi sostenitori. Andare in edicola a mani nude, senza un capitale alle spalle, è la sfida di ogni giorno. Ma una notizia che non ha padroni non è un bene che lo stato dovrebbe incentivare almeno quanto le biciclette, i frigoriferi o il gasolio per i trattori? 
A parte i «Chicago boys», l’idea che lo stato possa garantire servizi, diritti e consumi è patrimonio del senso comune. Si obietta che finanziare il Secolo, Avvenire o il manifesto sia una scelta di parte. Presi singolarmente è vero. Presi tutti insieme non lo è più. Lo stato non finanzia un giornale. Garantisce il pluralismo. Corregge (ahinoi troppo poco) le «distorsioni» del mercato o le inimicizie col potente di turno. 
Non v’è chi non veda il nesso tra un premier che implora di non leggere i giornali e un ministro che li chiude a decine per decreto. Il parlamento da due anni si è sempre opposto, anche se in maniera ogni volta provvisoria. Se stavolta non lo farà la partita è chiusa per sempre. Non chiuderà solo il manifesto (piccola cosa nel disastro generale) ma la possibilità stessa di un’informazione libera che si misura in edicola da pari a pari con quella pagata da costruttori, re delle cliniche e boss della finanza. Il mercato è morto, viva il mercato.

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