Finalmente riproposto il libro di Henryk Grossmann, considerato a torto la pietra miliare della teoria marxista novecentesca sul crollo inevitabile del capitalismo. Un libro utile per riuscire a comprendere come le imprese e gli stati provano a contrastare le dinamiche economiche e i conflitti che determinano la crisi di una formazione sociale
Finalmente riproposto il libro di Henryk Grossmann, considerato a torto la pietra miliare della teoria marxista novecentesca sul crollo inevitabile del capitalismo. Un libro utile per riuscire a comprendere come le imprese e gli stati provano a contrastare le dinamiche economiche e i conflitti che determinano la crisi di una formazione sociale
Per una singolare coincidenza, il 1929 non vide solo il crollo di Wall Street e l’avvio della crisi più profonda del capitalismo occidentale, ma anche l’apparizione, pochi giorni prima del famigerato «martedì nero», di un libro che più di altri poteva ambire a costituirne la spiegazione. Ne era autore Henryk Grossmann, docente all’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte e fervente militante marxista, che sotto il titolo La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalistico aveva appena completato un’imponente studio del pensiero di Marx sulla dinamica del modo di produzione capitalistico.
Benché scopo del volume fosse quello di instaurare un confronto critico con le principali tradizioni marxiste dell’epoca (da Bernstein a Kautsky, da Hilferding a Rosa Luxemburg, con un occhio attento a Lenin e alla sua interpretazione dell’imperialismo), la sua illustrazione della meccanica dell’accumulazione diede luogo ad un curioso paradosso.
Grossmann, infatti, si proponeva di valorizzare quegli aspetti della teoria marxiana della riproduzione allargata che, ove assunti in forma «pura», avrebbero condotto al crollo del sistema per sopravvenuta impossibilità dell’accumulazione stessa, ma non intendeva derivarne alcuna previsione circa un crollo «automatico» del capitalismo: due terzi del volume erano anzi dedicati all’analisi di quelle «controtendenze» che ne avrebbero impedito il verificarsi, trasformando così i presupposti del «crollo» in altrettanti presupposti di crisi.
Una tradizione inventata
Invece, accadde che nella tradizione marxista successiva egli fu frettolosamente liquidato come esponente di punta del «crollismo»; e se certo a questo singolare destino concorse il titolo imposto al libro, una lettura meditata di quest’ultimo – ora di nuovo possibile grazie al coraggio della casa editrice Mimesis di riproporlo al lettore italiano – conferma trattarsi di un destino davvero singolare.
Diciamo subito che, nonostante il gran tempo trascorso dalla sua prima apparizione, l’opera conserva una sua indubbia attualità. Verrebbe fatto di suggerirne la lettura ai tanti «neocrollisti» dei nostri giorni, i quali, richiamandosi talora a Marx, son venuti sostenendo che il futuro del capitalismo sarebbe minato niente meno che da una contraddizione fra la dinamica potenzialmente illimitata dell’accumulazione e il carattere finito del pianeta Terra. Sotto questo profilo, la chiarezza di Grossmann si apprezza oggi una volta di più. La contraddizione immanente all’accumulazione, egli spiega, concerne i mezzi di produzione e il lavoro quali operano nel processo tecnico di produzione, da un lato, «e le medesime forze produttive nel loro specifico involucro capitalistico dall’altro, cioè in quanto esse – poiché appartengono a proprietari privati – compaiono nel processo di valorizzazione come valori». Il processo di produzione capitalistico ha infatti natura duplice: «è un processo di lavoro per la produzione delle merci, dei prodotti, ed è contemporaneamente un processo di valorizzazione per il conseguimento del profitto». Solo quest’ultimo, però, costituisce il movente della produzione: «la produzione dei beni rappresenta per l’imprenditore soltanto un mezzo per lo scopo, un malum necessarium», il che equivale a dire che non sono i volumi assoluti del prodotto e dei ricavi a determinare l’incentivo all’accumulazione, ma il guadagno (inteso contabilmente come differenza fra costi e ricavi monetari). Di conseguenza, se è possibile che una sopravvenuta scarsità di certe materie prime o un sovrappiù d’inquinamento ambientale possano comportare un aumento dei costi di riproduzione delle condizioni della produzione (come ad esempio sostiene James O’Connor, esponente di rilievo della corrente «ecomarxista»), le conseguenze saranno semplicemente quelle già indicate da Marx: l’aumento del valore della componente «naturale» del capitale fisso, la caduta del saggio del profitto, un aumento del prezzo del prodotto e – chiosa Grossmann – il subentrare di controtendenze che porteranno al mutamento dei presupposti materiali fino ad allora assunti a base del processo produttivo.
Alla ricerca dell’equilibrio
Crisi, dunque, non «crollo». «Il nostro compito – scrive Grossmann – consiste nel mostrare come il processo di riproduzione capitalistico si muova necessariamente in senso ciclico, dunque in movimenti di ascesa e di discesa che si ripetono periodicamente». È vero, subito dopo Grossmann aggiunge: «e portino infine al crollo del sistema capitalistico». Ma la conclusione, ripetiamo, vale solo in funzione delle astrazioni iniziali dell’analisi: quando la tendenza al crollo viene a subentrare «già realmente», «il capitale sovraccumulato viene ridotto alla grandezza necessaria per la produzione della valorizzazione normale, e il sistema viene condotto in una nuova situazione di equilibrio».
Secondo la concezione marxiana, del resto, «la crisi è soltanto un processo di risanamento del sistema, una riproduzione, anche se violenta e collegata a perdite, dell’equilibrio, cioè della valorizzazione dal punto di vista capitalistico». Un po’ come la famigerata scopa di manzoniana memoria, che però, quando ha finito il suo tragico compito, permette al processo di accumulazione di ripartire su base allargata fintanto che non subentri una nuova «tendenza al crollo» e dunque un’altra crisi. Perché così funziona il capitalismo: con buona pace del pensiero economico mainstream, che – per bocca di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – ha avuto recentemente l’ardire di accollare la colpa dell’ultima crisi finanziaria al «settore pubblico» e alle sue «regolamentazioni errate», che avrebbero «favorito eccessivamente i prestiti edilizi»!
La forma del valore
Non importa qui ripercorrere il modo in cui Grossmann svolge la sua analisi della tendenza e delle controtendenze, una delle quali – la riduzione dei salari – appare drammaticamente visibile in questi giorni. Ci si deve chiedere, piuttosto, se davvero sia corretto analizzare la dinamica dell’accumulazione prescindendo dal carattere monetario dell’economia capitalistica.
In effetti, se una critica può muoversi all’impianto concettuale di Grossmann – qui davvero partecipe dell’ortodossia del suo tempo – concerne la pretesa di condurre l’analisi dell’accumulazione capitalistica sulla scorta di una lettura parziale della teoria marxiana del valore: una lettura, cioè, che si concentra sulla dinamica propria della sostanza e della grandezza del valore, prescindendo del tutto dall’analisi della forma di valore. Grossmann, infatti, deduce la tendenza al «crollo» dal fatto che, via via che l’accumulazione procede, la parte del plusvalore direttamente consumabile dai capitalisti diminuisce progressivamente, fino al punto da innescare un conflitto distributivo con la quota che è necessaria alla riproduzione allargata della classe lavoratrice. E trattandosi di una conseguenza che discende ex se dall’aumento della composizione organica del capitale, si capisce che il vero presupposto sotteso alla sua analisi è che sia possibile individuare le leggi strutturali del sistema capitalistico al di là del «velo» monetario con cui esse si manifestano. Come se le leggi dello scambio all’interno di un’economia monetaria potessero essere le stesse che governano l’allocazione delle risorse in un’economia non monetaria.
Si tratta di un problema più generale che è stato messo in rilievo in molti studi di lingua tedesca a partire dagli anni ’70 dello scorso secolo, tra i quali specialmente importanti quelli di Hans Georg Backhaus (ora finalmente disponibili per il lettore italiano), e che ha indotto gli studiosi più attenti a distinguere fra la teoria marxiana del valore e del denaro e la sua ricezione marxista. La prospettiva teorica marxiana può essere infatti compresa solo a partire da una domanda apparentemente banale, ma in realtà decisiva, che si trova seminascosta nel primo libro del Capitale: «perché il lavoro rappresenta se stesso nel valore e la misura del lavoro mediante la sua durata temporale rappresenta se stessa nella grandezza di valore del prodotto del lavoro»?
Oltre le nebbie dell’ideologia
La risposta di Marx è nota ma non per ciò conosciuta, e suona così: «Queste forme portan segnata in fronte la loro appartenenza a una formazione sociale nella quale il processo di produzione padroneggia gli uomini e l’uomo non padroneggia ancora il processo produttivo». La circolazione mercantile rappresenta infatti la forma che assume il processo sociale di riproduzione (e lo stesso «ricambio organico fra uomo e natura») quando la produzione sociale è dispersa nell’attività lavorativa di una pluralità di produttori indipendenti, che producono beni e servizi attraverso un lavoro privato. Questo carattere «privato» del lavoro fa sì che il suo prodotto non possa di per sé considerarsi «socialmente utile»: occorre una validazione sociale, che può essere data solo dalla sua conversione in denaro. Di conseguenza, qualsiasi interpretazione del processo di produzione capitalistico che pretenda di poter astrarre dal denaro, rimuovendo così la sua connessione necessaria con la teoria del valore, non può che ridursi ad una teoria del «valore-lavoro» inteso come «pena» o come «costo sociale reale» o perfino come «entropia»: vale a dire ad un ristabilimento nei fatti della teoria ricardiana del valore, che Marx criticò a causa dell’incapacità di risolvere l’antinomia che derivava dall’ammissione consequenziale di due misure del valore (una in «lavoro» e l’altra in «prezzi») e che può essere considerata la vera matrice di tutte le teorie del «crollo» del capitalismo.
Che di qui al «neocrollismo» ambientalista il passo sia breve si capirà a questo punto facilmente, ma non è questo che più importa. Serve piuttosto ribadire che nessuno dei problemi che emergono dalla struttura del modo di produzione capitalistico può essere risolto senza un «cosciente disciplinamento sociale della produzione», come Marx scrisse a Kugelmann. Proprio per ciò Grossmann concludeva il suo volume scrivendo, ancora con Marx, che «la figura del processo sociale vitale, cioè del processo materiale di produzione, si toglie il suo mistico velo di nebbie soltanto quando sta come prodotto di uomini liberamente uniti in società, sotto il loro controllo cosciente e condotto secondo un piano». Al lettore la scelta se dar credito a lui o a qualcuno dei tanti «loriani» di ritorno che ammiccano dai teleschermi.
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