Sull’Espresso dell’Alba col pibe e i no-global

Genio del calcio, comunicatore nato, abile presentatore, Diego Maradona scopre alla fine del 2005 anche un’inedita vena politica, schierandosi in prima fila contro George W Bush. Tutto inizia in un’intervista con Fidel Castro per la sua trasmissione «La Noche del Diez». Il leader cubano, all’Avana, spiega al suo pupillo il nuovo machiavellico piano dell’imperialismo nordamericano: Bush, contestato in tutto il mondo per la guerra in Iraq, presenterà  al Vertice delle Americhe di Mar del Plata, in Argentina, un nuovo trattato commerciale, l’Alca, che riorganizzerà  gli scambi fra i paesi del continente americano tutelando però solo gli interessi statunitensi.

Genio del calcio, comunicatore nato, abile presentatore, Diego Maradona scopre alla fine del 2005 anche un’inedita vena politica, schierandosi in prima fila contro George W Bush. Tutto inizia in un’intervista con Fidel Castro per la sua trasmissione «La Noche del Diez». Il leader cubano, all’Avana, spiega al suo pupillo il nuovo machiavellico piano dell’imperialismo nordamericano: Bush, contestato in tutto il mondo per la guerra in Iraq, presenterà  al Vertice delle Americhe di Mar del Plata, in Argentina, un nuovo trattato commerciale, l’Alca, che riorganizzerà  gli scambi fra i paesi del continente americano tutelando però solo gli interessi statunitensi. «Con l’Alca – spiega Castro – milioni di contadini, dal Messico in giù, saranno costretti a fare quello che ordinano i gringos. Washington vuole controllare i prezzi dei principali prodotti agricoli, le tariffe doganali, decidere cosa debba coltivare e consumare la nostra gente. Bisogna fermarli, prima che sia troppo tardi!». Diego raccoglie subito la sfida. «Fidel, se devo dare il mio contributo, io ci sarò!».
La settimana successiva lo scrittore e giornalista argentino Miguel Bonasso lo invita a salire sul treno che partirà da Buenos Aires con tutti gli organizzatori. Lo chiamano l’Espresso dell’Alba, dalla sigla dell’Alternativa bolivariana per le Americhe, un’intesa firmata dallo stesso Castro assieme al venezuelano Hugo Chavez e altri leader progressisti sudamericani per contrastare i piani della Casa Bianca. (…) Giovedì 3 novembre migliaia di persone si accalcano alla stazione di Constitución, a Buenos Aires, per la partenza. Per l’occasione si userà il «Marplatense», un vecchio convoglio d’epoca fatto costruire dal generale Peron negli anni cinquanta. Maradona si affaccia dal finestrino, ha una maglietta nera con la faccia di Bush e una scritta: criminale di guerra. Il regista Emir Kusturica non lo molla un attimo. «Bush è un assassino – dirà Diego nel suo documentario – non ho altre parole per definire un tipo che lancia delle bombe che uccidono migliaia di civili».
Sul treno c’è anche Evo Morales, un leader sindacale che pochi mesi dopo diventerà il primo presidente indio della Bolivia. È un convoglio pienamente no-global, spicca ovunque l’immagine di Che Guevara, i drappi rossi con gli slogan contro i «gringos» invasori, ci sono anche le mamme di Piazza di Maggio, con i loro fazzoletti bianchi in testa. Il treno parte con due ore di ritardo, migliaia di persone lo salutano lungo la sua corsa verso Mar del Plata. Maradona si sistema nell’ultimo dei cinque vagoni. Vorrebbe riposare, ma seicento passeggeri vogliono vederlo, accarezzarlo, conoscerlo. Miguel Bonasso lo convince che è meglio andare a salutarli tutti così poi si potrà dormire un po’. Saranno cinquanta minuti di baci e abbracci, fino al capotreno. A metà percorso il «Marplatense» si ferma nei pressi di Alejandro Korn, un paesino sperduto nell’immensa pampa bonaerense. Per una minaccia di bomba o forse un guasto tecnico, non si è mai chiarito. E’ una scena surreale, un paese di ventimila anime, che prende il nome da un filosofo e psicologo argentino, difensore dell’autonomia e dei diritti degli studenti universitari, si sveglia nel cuore della notte e va in processione a salutare l’eroe nazionale.
L’arrivo a Mar del Plata è un caos. Diego riesce a sottrarsi alla folla venuta a vederlo infilandosi in una pattuglia della polizia; gira con gli agenti per una ventina di minuti perché non sanno dove portarlo, alla fine lo consegnano nell’hotel dove è alloggiato Chavez. Il pibe de oro avrebbe voluto manifestare nel «corteo dei popoli» che attraversa la città, ma la sua presenza manderebbe in tilt il servizio d’ordine, la polizia gli consiglia di lasciare perdere. Appare a metà pomeriggio in uno stadio gremito e festoso, nonostante la pioggia battente. 50mila persone saltano gridando il suo nome. Mi bagno, ci bagniamo, ma non importa, è troppo buffo vederlo sugli spalti con il pubblico che riempie il campo, un insolito gioco delle parti. Chavez è l’unico oratore, parla a braccio per due ore filate.
«I nostri indios ci insegnano che bisogna soffiare tre volte verso il cielo per cacciare le nubi, facciamolo e la pioggia cesserà». Arringa Hugo, la folla è sua. «L’imperialismo nordamericano ha fallito già una volta quando ha cercato di bloccare la forza della rivoluzione cubana, non riusciranno, ora, a fermare la nostra di rivoluzione, che è socialista e bolivariana». Il venezuelano ricorda Simon Bolivar, il padre dell’indipendenza sudamericana dalla corona spagnola, ma anche Fidel Casto, Che Guevara, Peron, Martin Luther King. E, ovviamente, Maradona. «Vieni qui sul palco, pibe, vieni a dire qualcosa a questa gente meravigliosa». Diego lo abbraccia, prende il microfono, ringrazia tutti per essere venuti. «L’Argentina ha dignità, cacciamo Bush !». Lo stadio esplode. «Viva Diego, grande Maradona, viva el Pueblo, viva Nuestra America», chiosa il comandante. Ed è un tripudio.

Tratto dal libro «50 volte Diego» di Emiliano Guanella, 108 pagine, 12 euro, autoprodotto e acquistabile su www.ilmiolibro.it.

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