Pensiero italiano

UN’INTERVISTA CON ROBERTO ESPOSITO
Il rapporto conflittuale con il potere è il tratto caratteristico della filosofia italiana rappresentato al meglio da alcune figure intellettuali e dal femminismo

UN’INTERVISTA CON ROBERTO ESPOSITO
Il rapporto conflittuale con il potere è il tratto caratteristico della filosofia italiana rappresentato al meglio da alcune figure intellettuali e dal femminismo

Di ritorno dagli Stati Uniti dove ha tenuto una serie di conferenze a New York, Chicago e Los Angeles e partecipato al convegno di cui riferiamo qui a fianco, Roberto Esposito torna a riflettere sulla fortuna crescente che la filosofia italiana sta registrando al di fuori dei propri confini. «Sin dalla sua nascita la filosofia italiana è estranea alle categorie usate dalla filosofia europea – afferma l’autore di Pensiero vivente. Origine e attualità della filosofia italiana (Einuadi, pp. 265, euro 20) -. Non ha una natura logica come quella anglosassone, né metafisica come quella tedesca, ma è pienamente mondana. Usa linguaggi come la politica con Machiavelli, la storia con Cuoco, la letteratura con Leopardi. Negli Usa, l’interesse per questa filosofia, come per l’operaismo e il femminismo è dovuto a tre ragioni: la sua estraneità alle istituzioni come lo Stato-Nazione o la Chiesa, la sua vocazione per il conflitto e la costruzione di un’alternativa rispetto ai blocchi costituiti del potere, il suo interesse per un pensiero affermativo della vita e della storia».
Gli italiani sono tornati ad emigrare per fare filosofia. Chi è nato dagli anni Settanta in poi lo fa perché lo Stato non ha alcun interesse a finanziare la ricerca. Qual è la responsabilità dell’università in questo esodo?
Io ho avuto una vita agevole. Ho sempre lavorato a Napoli, faccio parte del sistema accademico, ma non posso ormai negare la situazione. L’università italiana sta correndo il rischio di diventare un’istituzione sterile che ospita alcuni studiosi di valore. Mario Tronti però è andato in pensione senza essere diventato professore ordinario. Giorgio Agamben l’ha lasciata da poco. La stesse difficoltà le hanno passate Derrida, Foucault o Balibar in Francia. Il sapere accademico è sempre normalizzante e normativo. I tentativi di innovazione o di decostruzione tendono ad essere espulsi o marginalizzati al suo interno. In Italia i caratteri conservatori di questa istituzione sono molto forti. Croce rifiutò di insegnare per questo motivo. La situazione è peggiorata negli ultimi anni e non solo per responsabilità del governo attuale. Il precedente ministro di sinistra non ha prodotto risultati migliori. Quello che oggi emerge è la svalutazione del lavoro intellettuale in ogni sua forma. È necessario trovare gli strumenti per opporsi a questa tendenza, non rassegnarsi ad assecondarla.
Quanto ha influito sulla genesi della filosofia italiana il suo rapporto antagonistico con il potere?
Questo è il problema originario che l’ha portata a maturare una vocazione per il conflitto. Ancora oggi la distanza dai poteri costituiti è la forza del pensiero italiano. La sua debolezza è di non avere costruito un’identità a partire da un territorio omogeneo, con una capitale e una sovranità unica. In un’epoca di globalizzazione questo elemento viene giudicato più come una risorsa, che come una mancanza. Negli ultimi anni mi sono reso conto che questa trasformazione di senso ha cambiato il modo di scrivere la storia del nostro pensiero. Per questo ho proposto nel mio libro un «anticanone», opposto a quello usato dalla storiografia idealistica da Bertrando Spaventa in poi, basato sulla contaminazione tra lessici diversi. Quello italiano non è un pensiero dell’identità, ma della deterritorializzazione.
Nella tua ricostruzione parli una sola volta di Spinoza, la sua filosofia è stata per 150 anni al centro di un movimento europeo laico e materialista vicino alla borghesia e alle classi popolari. Per quale ragione lo definisci «il più italiano dei filosofi» visto che non è assimilabile all’elitarismo cosmopolita che Gramsci contestava agli intellettuali italiani?
Ho definito così Spinoza perché anche la sua filosofia è fondata sulla resistenza e sull’antagonismo. Sia pure in termini idealistici, e non materialisti, Gentile stesso ha riconosciuto che Bruno e Spinoza rientrano nella linea comune del pensiero dell’immanenza. Spinoza condivide con Machiavelli, Pareto e Croce un pensiero realistico e non utopistico della politica.
Eppure lo spinozismo resta una proposta di mobilitazione che manca in Italia. È forse dovuto al fatto che il pensiero italiano non ha mai contato sulla potenza sociale, economica e civile che invece ha ispirato Spinoza?
A differenza dello spinozismo il pensiero italiano è il risultato della rottura con l’ontologia sociale. In questo paese non è mancato solo un rapporto con lo stato moderno, ma anche quello con una società produttiva in senso economico. Questa mancanza ha determinato l’apolidismo dei filosofi. Vico, ad esempio, che è stato un grande pensatore, lavorava come precettore e l’ha fatto per tutta la vita.
Quanto pesa questa situazione oggi?
Molto. È singolare che alcuni autori italiani abbiano più riscontro all’estero. È un problema che investe tanto l’università, quanto il contesto sociale e politico-istituzionale. Ciò non toglie che bisogna continuare a fare filosofia per costruire dispositivi che analizzano la nostra vita e per produrre una forza performativa, pensiero e movimento, che trasformi la realtà. Se si aprisse in Italia una riflessione su questi temi, si potrebbe avviare una battaglia culturale.
La filosofia italiana non ha superato il pregiudizio che portò Croce a definire chi lavorava nelle sue terre abruzzesi «lisce palle da biliardo». Invece di creare le condizioni per un’alleanza sociale, questa filosofia considera il conflitto solo in termini teorici con il risultato di neutralizzarlo. Come spieghi questa tendenza?
La critica di Gramsci a Croce è ancora valida. Bisogna tuttavia considerare che Gramsci ragionava a partire da un’idea di partito politico, di blocco sociale e di divisione tra le classi che non esistono più. Sul piano dei principi oggi abbiamo una destra di tipo eversivo e una sinistra di tipo difensivo e legalitario, le cui categorie sono ancora interne al diritto sovrano e allo stato. È del tutto assente la comprensione del piano biopolitico che invece è colto da Berlusconi, inconsapevolmente o perversamente. La sinistra resta del tutto estranea al discorso sui corpi, al desiderio, alle dinamiche collettive. Pasolini è stato uno dei pochi ad avere intuito la mutazione antropologica che ha portato alla costruzione di un regime biopolitico che si fonda sull’identificazione con il Capo e sul godimento differito che elide la possibilità del conflitto. Il berlusconismo limita il conflitto alle élites, all’immaginario o alla legalità.
In che modo l’incapacità di trovare alternative politiche al berlusconismo influisce sul pensiero politico italiano?
Questo non è certamente un problema solo dei filosofi, ma dell’intero paese. Non c’è dubbio che il ventennio berlusconiano, e l’incapacità della sinistra di comprenderlo, abbiano impedito di ripensare il conflitto all’altezza della realtà italiana. La crisi in cui viviamo ha neutralizzato la ricerca di una soggettività politica. Si potrebbe dire che non c’è nulla di nuovo, la filosofia politica moderna ha sempre lavorato per neutralizzare il conflitto. Ma oggi rispuntano forti tendenze all’immunizzazione che rendono difficile riconnettere il conflitto con il piano dell’immanenza.
Ed è per questo che in Italia si è tornati a riflettere sul teologico-politico?
Sì, perché chi non capisce la genesi di questa crisi preferisce abbandonare il mondo terreno in attesa di una soluzione messianica. Questo problema nasce dall’antinomia tra l’essere «dentro e contro» che io avverto nell’operaismo. Quando Antonio Negri sceglie l’immanenza – la rivoluzione cioè è già in atto – non chiarisce le modalità attraverso le quali si sviluppa il conflitto rivoluzionario. In questo modo si rischia di smarrire l’efficacia del conflitto. Tronti, invece, salva il conflitto, ma rinuncia all’immanenza. La riscoperta della trascendenza lo ha spinto a rinunciare all’immanenza e alla storia. La stessa crisi politica e sociale ha spinto a soluzioni altrettanto problematiche Ernesto Laclau, Judith Butler o Slavoj Zizek che privilegiano un piano di analisi psicoanalitico, rischiando però di neutralizzare la soggettività politica che invece vorrebbero rilanciare.
Continua però mancare nel tuo discorso una risposta alla necessità della trasformazione sociale. Eppuri parli del rapporto conflittuale della filosofia con il potere…
Non posso negare di essere anch’io dentro questa contraddizione. Le ambiguità, i limiti e i punti di arresto della filosofia italiana sono anche i miei. Ripeto, dietro il pensiero italiano è mancata finora un’ontologia attiva di tipo sociale o politico. Continuano a prevalere le spinte alla neutralizzazione di tipo teologico-politico, legalista o di tipo lacaniano. Serve un passaggio d’epoca che ci permetta di superare questo limite. Ma un simile superamento può avvenire solo grazie ad un movimento globale, non certo a partire dalla teoria. Il pensiero politico italiano resta però più di altri in ascolto, mantiene un’apertura verso il possibile. Per questo è il più sensibile all’esigenza della trasformazione.

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