L’erba della California è sempre più verde

Lo stato sull’orlo della bancarotta punta sul florido mercato della marijuana e sulla sua legalizzazione. Tassare lo spinello è la sua ultima chance. Aspettando l’esito della consultazione popolare di martedì prossimo, i coltivatori dell’estremo nord, dove la cannabis ha sostituito l’industria del legname, temono la concorrenza delle multinazionali come la Philip Morris

Lo stato sull’orlo della bancarotta punta sul florido mercato della marijuana e sulla sua legalizzazione. Tassare lo spinello è la sua ultima chance. Aspettando l’esito della consultazione popolare di martedì prossimo, i coltivatori dell’estremo nord, dove la cannabis ha sostituito l’industria del legname, temono la concorrenza delle multinazionali come la Philip Morris

ARCATA, CALIFORNIA. Il referendum che martedì potrebbe legalizzare la marijuana in California è, a seconda delle opinioni, un esempio di lungimiranza sociale oppure l’ultima spiaggia di uno stato sull’orlo della bancarotta che tenta disperatamente di finanziarsi aggrappandosi ai nipoti dei figli dei fiori. Di sicuro la locomotiva californiana ha perso colpi sotto il peso di una crisi profonda, figlia di un trentennio liberista all’insegna di una demagogia populista e antistatalista. Una politica che ha azzerato l’infrastruttura e facilitato il crack dei mutui spazzatura, di cui la California è stata uno degli epicentri. La bolla immobiliare-creditizia e la ricchezza fittizia che ha prodotto erano già segnali di una «caduta» rispetto all’innovazione tecnologica di Silicon Valley e dei campus universitari di epoca più felice. In ogni caso, la vicenda della canapa in California, di cui il referendum è l’ultimo capitolo, è istruttiva nella sua dimensione di industria emergente in un contesto di crisi economica e «mitologica» dello stato-frontiera, che in quanto tale influisce profondamente sul resto dell’America.
La cannabis in California è semilegale dal 1996, quando un altro referendum – il celebre «215» – ha legalizzato l’uso della marijuana a scopo terapeutico, una decisione maturata in anni di lotte di militanti guidati da Dennis Peron, attivista gay di San Francisco, amico di Harvey Milk (il consigliere comunale ucciso per il suo impegno pro-gay ) e perfino candidato governatore. L’uso «medicinale» dell’erba prende piede proprio durante l’epidemia dell’Aids, all’epoca dei numerosi collettivi autogestiti dove l’erba si fumava per alleviare la nausea provocata dalla chemio e per stimolare l’appetito.
La nuova legge che permette di acquistare marijuana esibendo una semplice «raccomandazione» medica per attenuare i disturbi più svariati, dall’insonnia alla tensione muscolare, viene inizialmente ostacolata dalle autorità federali ma finisce per stabilire in California un vasto «mercato grigio» della cannabis. Oggi le «farmacie» specializzate in marijuana sono un migliaio – solo a Los Angeles più di 700 – con barattoli etichettati di «buds», i germogli di marijuana, allineati sugli scaffali, dolcetti al Thc esposti nelle bacheche, tinture, colluttori, caramelle e gelati all’erba. Alcune erboristerie mantengono personale medico per stilare «ricette» sul posto. Ad ogni modo, non è certo complicato procurarsi una ricetta per le canne. È noto, insomma, e fonte di grande irritazione della polizia, che accanto agli usi legittimi, le erboristerie hanno di molto facilitato l’assunzione di marijuana in generale e alimentato l’intera filiera fino ai campi di Humboldt County, all’estremo nord, cuore dell’agricoltura-ombra della California.
A Garberville, la strada principale, cioè l’unica strada, è affollata di vecchi pickup, giardinette scalcinate e furgoni volkswagen vintage con simboli della pace e adesivi d’ordinanza di complessi grunge. C’è un discreto via vai di turisti diretti alla Avenue of the Giants, settanta dei più suggestivi chilometri dello stato lungo la statale che si snoda nei boschi schivando gli strepitosi tronchi color ruggine, larghi fino a cinque metri di diametro: i maestosi redwood alti cento metri, ultimi reduci delle foreste millenarie che una volta coprivano milioni di ettari. Ma non sono solo gli escursionisti ad affollare il paese. I gruppi di ragazzi seduti sul marciapiede, quelli che scaricano gli zaini dal retro di un pickup all’entrata del paese e quelli che mostrano alle macchine che passano, cartelli con scritto «cerco lavoro», fanno parte dell’esercito stagionale che ogni anno nella stagione del raccolto invadono Humboldt in cerca di impiego in un’industria che tira. Questa regione all’estremo settentrione della California è infatti detta il «Triangolo di Smeraldo» e nei campi e sui monti nascosti dai boschi produce gran parte del raccolto più pregiato dello stato-paniere.
I $35 miliardi di fatturato ufficiosamente assegnati alla marijuana californiana, infatti, sono più di quelli derivati dai prodotti caseari, seconda voce agricola dello stato, e più dell’altra celebrata industria di agricoltura «artigianale» pregiata, i vini di Napa e di Sonoma. I colleghi viticoltori sono il punto di riferimento fisso di Joey Burger, presidente della Humboldt Growers Association, la coldiretti della cannabis, un’associazione – mi spiega Burger – col compito di tutelare la reputazione, la tradizione e l’oculata ibridazione con cui in 40 anni i coltivatori di Humboldt hanno prodotto le varietà più potenti e apprezzate dal mercato.
Burger, che gestisce anche un punto vendita di attrezzature per la coltivazione, lavorazione e conservazione dell’erba, è chiaramente insofferente a una semi-clandestinità ormai assai stretta all’industria, che da martedì prossimo potrebbe essere del tutto legittima. E industria è davvero la parola giusta, almeno di non voler credere che la mezza dozzina di capannoni industriali alla periferia di questo piccolo paese, pieni di fertilizzanti, attrezzature e prodotti per la coltivazione, non siano che l’espressione di una straordinaria passione locale per l’orticoltura.
Gran parte di questa regione – coperta dalla coltre smeraldo delle sequoia sempervirens – è ormai dipendente dalla marijuana. Vasta e verdissima, attraversata dalla mitica Highway 101 diretta in Oregon e poi a Seattle, è popolata dalla caratteristica mescolanza di neo-hippie vegani e barbuti e proletari blu-collar, reduci questi ultimi dell’industria del legno che in precedenza costituiva la monocultura del territorio. Oggi è una regione de-industrializzata, orfana dell’attività che dall’ottocento era stato il suo unico motore economico: le segherie che hanno disboscato valle dopo valle abbattendo le gigantesche conifere per alimentare lo sviluppo del West e costruire San Francisco e Los Angeles. La delocalizzazione del lavoro, la concorrenza e la pressione sui prezzi, provocata dall’importazione di legni pregiati canadesi e sudamericani, ne hanno provocato l’implosione, aggravata oggi dalla recessione. Solo nell’ultimo decennio hanno chiuso il 90% delle segherie rimaste. La California, che produceva l’80% del proprio legname oggi ne importa l’80%. Contemporaneamente anche l’industria della pesca è crollata: la depressone ha fatto dei maggiori centri Fort Bragg, Arcata, Eureka, Crescent City, fantasmi di se stessi, capitali fatiscenti di un impero di legno che ha lasciato il posto a povertà e disoccupazione. Allo stesso tempo le foreste millenarie sono diventate la prima linea del movimento ambientalista che a partire dagli anni ’70 ha condotto qui una lotta spesso cruenta contro le lobby del legno, mettendo chiodi d’acciaio nei tronchi per far saltare le motoseghe e occupando all’occasione gli stessi alberi minacciati. L’ultima volta che ho visitato questa regione è stato per arrampicarmi sulla sequoia alta 90 metri sulla quale ha vissuto per un anno Julia Butterfly in una delle più clamorose azioni anti-disboscamento organizzate dagli ambientalisti radicali di Earth First!
Deindustrializzazione e vocazione controculturale hanno contribuito all’emergere di una nuova monocoltura, la cannabis, che negli anni ’70 hippy in trasferta dal sud hanno cominciato a coltivare per supplire all’importazione da Messico e Colombia. L’erba ha riempito il vuoto lasciato dai grandi alberi e oggi, dopo un paio di generazioni, è fonte del principale sostentamento per migliaia di famiglie gran parte delle quali si attengono alla legge che permette la coltivazione fino a 99 piante per uso personale se si è in possesso della famosa ricetta.
Incontro Barbara nella sua fattoria al termine di un tragitto di venti minuti su strade di bosco e campagna. Di piante ne ha 400, ma, mi spiega, «l’orto» è legale perché si tratta di un’operazione cooperativa con tre altri amici, come conferma la licenza regolarmente affissa alla staccionata. «Nel raggio di duecento chilometri da qui – dice – conosco una famiglia che non coltiva. Una sola». Originaria di Frosinone, Barbara è in California da trent’anni e a Humboldt da quindici. Non fuma, ma fa infusioni di foglie e prepara tinture ed estratti al Thc, e come tutti qui venderà l’eccedente alle farmacie delle grandi città tramite un intermediario perché mentre produzione e consumo sono semi-legali, la distribuzione rimane punibile.
Quello di quest’anno è stato il suo primo raccolto ma da almeno dieci anni lavora nell’industria come «trimmer», così sono chiamati i pulitori di bud che a raccolto fatto puliscono accuratamente le cime resinose delle piante da tutte le foglie per dargli la forma commerciabile. È un lavoro certosino che bisogna fare a mano con piccole forbici, ed è il più intensivo del settore. Si spiegano così i cartelli che ho visto in paese in mano ai ragazzi sul marciapiede, quelli recanti il disegno di una forbice per indicare il tipo di lavoro che cercano.
Durante la mia visita mi vengono indicate diverse case che ospitano «trim room» in cui gruppi di persone lavorano di fino sedute attorno a tavoli con mucchi di bud raccolti di fresco, molti vengono apposta anche da molto lontano, diversi perfino da paesi europei. La paga media è $200 la libbra e Barbara mi dice che ci si può mettere dalle 5-8 ore per pulire mezzo chilo. Per i ragazzi è un buon modo per guadagnare dei soldi stando immersi nella natura, come si faceva con la vendemmia.
Alla Trim Scene Solution, la sua azienda, Burger mi mostra come funziona la macchina che vende nel suo negozio. «È una pulitrice automatica – mi spiega – può fare il lavoro di 50 trimmer, è acciaio inossidabile autopulente e ti evita di dover assumere gente che non conosci e mantenere l’operazione in famiglia». L’azienda famigliare, mi spiega poi, quella che ha investito anni di lavoro e cresciuto il brand di Humboldt, oggi è già minacciata dall’agribusiness e dalle grandi coltivazioni clandestine sulle montagne, molte controllate direttamente dai cartelli messicani. Se ci sarà la legalizzazione, si troveranno a competere con multinazionali come la Philip Morris. E non è l’unico a pensarla così. Gli «artigiani» di Humboldt, che potrebbero aver steso a seccare il loro ultimo raccolto «clandestino», sono in prevalenza contrari a una depenalizzazione che potrebbe sconvolgere i fragili equilibri del loro business. Per il giorno in cui gli spinelli dovessero essere venduti in distributori automatici riforniti dalle multinazionali, pensano già a una denominazione di origine controllata come quella del vino, all’incentivazione del turismo specializzato e a degustazioni presso i produttori.
Su questo sfondo la California arriva ora al voto sulla ganja «ricreativa», un’iniziativa che nei sondaggi (in questo caso anche meno attendibili del solito) è stata favorita per mesi ma che potrebbe facilmente venire sconfitta per una questione più che altro generazionale: gli anziani, in maggioranza diffidenti della droga, votano in numero molto maggiore che non i giovani prevalentemente favorevoli. Qualunque sia l’esito finale è significativo che se ne discuta comunque come di una opzione legittima, il che dà la misura della crisi dello stato. L’argomento principale addotto dai fautori della marijuana legale è il gettito fiscale che presumibilmente produrrebbe la tassazione della florida economia sommersa, evitando forse la bancarotta che incombe sulla California.
Il testo del referendum è stato scritto da Richard Lee, fondatore dell’università della cannabis (Oaksterdam University) dove si formano futuri manager di farmacie, e proprietario lui stesso di due erboristerie ad Oakland. Fautore convinto della nuova imprenditoria della marijuana, mi fa la domanda retorica che ho sentito spesso ripetere a Humboldt: «Per quale ragione sarebbe meno etico un capitalismo legato a un’ industria sostenibile come la marijuana di quello generato dalle speculazione bancarie e da Wall Street che hanno provocato la crisi?». «Noi vogliamo solo lavorare onestamente, soddisfare la richiesta di mercato e creare lavoro dove ce n’è disperatamente bisogno. – conclude – La gente ne ha abbastanza di regole arbitrarie imposte da uno stato insensibile. Se vinceremo in California, Washington ne dovrà prendere atto». Lo ha fatto intanto l’amministrazione Obama, che per bocca dell’ attorney general Eric Holder, ha promesso il ricorso di Washington in corte federale se la California dovesse legalizzare l’erba.
Una dinamica che riflette l’emergente conflitto fra stati e governo federale su diversi fronti. Una ventina di governi statali, ad amministrazione conservatrice, stanno preparando ricorsi formali alla riforma sanitaria di Obama e, nel caso più eclatante, uno stato di frontiera, l’Arizona, si è arrogato il diritto di stabilire un’autonoma politica di immigrazione adottando la legge anti-clandestini attualmente bloccata da Washington. Paradossalmente i libertari del fumo rivendicano «da sinistra» un federalismo analogo.

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