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Le bombe alleate e il sangue innocente

Giampaolo Pansa racconta in “I vinti non dimenticano” gli attacchi ai civili. Il fuoco dal cielo, scrive l’autore, fece più vittime delle rappresaglie naziste e degli attentati partigiani e non rispondeva né a una strategia militare né a una psicologica   

Giampaolo Pansa racconta in “I vinti non dimenticano” gli attacchi ai civili. Il fuoco dal cielo, scrive l’autore, fece più vittime delle rappresaglie naziste e degli attentati partigiani e non rispondeva né a una strategia militare né a una psicologica   

Prima ancora che un revisionista, etichetta che indossa come una medaglia, Giampaolo Pansa si considera un “completista”, ossia la penna che riempie «le pagine che gli storici faziosi, quelli rossi, si sono sempre rifiutati di scrivere». E quando si punta alla completezza, i libri non finiscono mai. Ma questo suo nuovo I vinti non dimenticano (Rizzoli, pagg. 463, euro 19,50), benché fin dal titolo lo sembri, non è il semplice sequel del libro che sette anni fa gli procurò invettive e ostracismi a sinistra, Il sangue dei vinti. La sequenza di storie dimenticate o negate di ammazzamenti “politici” sul finale della Seconda guerra mondiale (prima e dopo il 25 aprile: la distinzione, nello schema interpretativo di Pansa, è ininfluente) di fascisti, loro familiari o “nemici di classe” ad opera di un Pci descritto come una macchina di sterminio preventivo dei futuri controrivoluzionari, è la stessa, semmai più crudele ancora nel racconto dei dettagli. Pansa colma le lacune della sua precedente collezione di storie oltrepassando i confini del nord repubblichino e poi del “triangolo della morte” emiliano, spostandosi a Torino, scendendo in Toscana, in Liguria, passando il confine sloveno, addentrandosi nella “pulizia etnica” istriana, mostrando una particolare attenzione alla sorte delle donne vittime. Ma un capitolo e un dubbio insinuano in questo volume una crepa che porta forse molto lontano dalle stesse intenzioni dell´autore, dalla sua esplicita volontà di infrangere il tabù della «storiografia dimezzata» e rivendicare il «diritto all´equità» della pietà e della memoria.
Il capitolo è quello, breve ma inatteso, sui bombardamenti alleati contro la popolazione civile. Anche quello, sostiene Pansa, è «sangue dei vinti», doppiamente vinti perché mai scesi neppure in guerra, mai stati nemici di qualcuno. Il fuoco dal cielo, spiega, fece più vittime delle rappresaglie naziste e degli attentati partigiani, e non rispondeva né a una strategia militare (colpire obiettivi sensibili) né a una psicologica (spingere l´Italia a uscire dall´alleanza con la Germania: infatti le bombe caddero anche dopo l´armistizio). Il dubbio, forse conseguenza di questo allargamento della platea dei “vinti” alla “zona grigia” dei civili senza ideologie, senza parte né partito, è quello sinceramente dichiarato fin dalle prime pagine: «che tutte le guerre sono un evento diabolico, non esiste una causa che renda giusto uccidere un essere umano».
Neppure la causa «della nostra libertà», che pure Pansa riconosce ai liberatori angloamericani? Il dubbio apre uno spiraglio su un tabù forse ancora più imponente della ormai ventennale polemica sui “delitti partigiani”: la giustificazione morale della guerra e dei suoi macelli. Ma Pansa sembra esitare sul bordo di questa faglia morale. Se la “mattanza rossa” resta per lui lo strumento di un progetto razionale di instaurazione di una dittatura, di fronte alla mattanza democratico-occidentale dei B-52 alleati evita di risalire dal mezzo al fine, dal sangue dei vinti alle intenzioni dei vincitori. Un passo in più forse era necessario. Quello che ha osato fare W. G. Sebald nel suo Storia naturale della distruzione, chiedendosi il perché della scomparsa, nella coscienza degli intellettuali democratici tedeschi, di ogni riflessione sui bombardamenti disastrosi sulle città della Germania nazista, e rispondendosi che quelle riflessioni risultano intollerabili perché portano a una conclusione: che «il principio ispiratore di qualsiasi guerra è il più completo annichilimento del nemico»; che il vero e inevitabile prodotto di qualsiasi guerra è terribilmente e banalmente evidente: mucchi di cadaveri; che i morti civili non sono mai spiacevoli “danni collaterali”, né «vittime sacrificate sulla via che conduce a qualche obiettivo, bensì esse stesse l´obiettivo e la via». È ancora così decisivo leggere dietro gli ammazzamenti del ´43-´45 e oltre l´orrore ideologico della nostra guerra civile e dei suoi strascichi, quando gli ammazzamenti dei bombardieri, da Coventry a Hiroshima, ci mostrano in forma così pura l´orrore «diabolico» che turba anche Pansa? Non si può affermare finalmente che anche la ferocia armata delle ideologie totalitarie del secolo breve è solo una delle molte possibili incarnazioni di quello che James Hillman ha definito «un terribile amore per la guerra»?

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