Joe Cocker. Il Leone di Sheffield: attenti, sono tornato a ruggire

E’ sopravvissuto alla stagione più eccessiva del rock, ha superato alcol e droghe e oggi, a 66 anni, è uno dei più grandi interpreti del blues e del pop odierno. E torna con un nuovo album Nostalgia? Beh, negli anni Sessanta avevamo Marvin Gaye e Stevie Wonder. Chi abbiamo oggi? Lady GaGa e Katy Perry. Bere e drogarsi ti consegnava nelle mani di persone senza scrupoli che diventavano i tuoi padroni  

E’ sopravvissuto alla stagione più eccessiva del rock, ha superato alcol e droghe e oggi, a 66 anni, è uno dei più grandi interpreti del blues e del pop odierno. E torna con un nuovo album Nostalgia? Beh, negli anni Sessanta avevamo Marvin Gaye e Stevie Wonder. Chi abbiamo oggi? Lady GaGa e Katy Perry. Bere e drogarsi ti consegnava nelle mani di persone senza scrupoli che diventavano i tuoi padroni  

ROMA. Un giorno Pam torna al ranch con una scatola. La porge al marito: «Hanno inventato un computer per vecchietti, finalmente potrai usarlo anche tu». Joe Cocker scarta il regalo e si trova fra le mai un iPad. «In effetti non è difficile da usare», ruggisce il leone di Sheffield, che ormai da un quarto di secolo vive tra le montagne del Colorado. «La prima cosa che ho fatto è stato tentare un downloading. Volevo scaricare alcune canzoni di Nina Simone e Donny Hathaway ma disorientato ho schiacciato il pulsante sbagliato e ho comprato un brano di Katy Perry. Che disastro!». Cocker, che il 5 ottobre pubblica Hard knocks, il 21esimo album di studio in 45 anni di carriera, non riesce ad adattarsi alla modernità. È un sopravvissuto, come Tina Turner. Un fuoriclasse del rock che non vuole essere uguale a nessun altro. «Ho smesso di seguire la musica», dice l´artista, che sta anche mettendo a punto un nuovo tour (il 14 novembre approda al Palasharp di Milano). «Negli anni Sessanta avevamo Marvin Gaye e Stevie Wonder. Chi abbiamo oggi? Lady GaGa e Katy Perry. Sono cresciuto nel momento di grazia del rock´n´roll. C´erano i Led Zeppelin, i Traffic, gruppi esaltanti, creativi. Ci guidava l´entusiasmo, non ci sfiorava neanche l´idea che avremmo influenzato generazioni intere di artisti, che saremo entrati nella storia».
Racconta che da ragazzo era solo un imitatore di Ray Charles, non aveva fiducia in se stesso, non pensava che ce l´avrebbe mai fatta. Finché non incise la sua versione della beatlesiana With a little help from my friends, trasformando la marcetta di Ringo Starr in uno dei brani più laceranti della storia del rock, un inno della Woodstock generation. «Fu un periodo esaltante», confessa. «Ma allora era anche molto facile che per un rocker la vita diventasse un girone infernale. Bere e drogarsi innestava un meccanismo diabolico, ti consegnava nelle mani di persone senza scrupoli che diventavano i tuoi padroni; ti aspettavano all´ingresso degli artisti per la dose o nelle hall degli alberghi per riscuotere il compenso. E in mezzo a questo mare di problemi io avevo i miei contratti da onorare, un concerto dietro l´altro, spesso fatto e ubriaco fradicio».
Quelle esibizioni in una sorta di trance diventarono il suo marchio, John Belushi lo imitava alla perfezione in uno sketch del Saturday night live. La situazione deragliò proprio negli Usa, alla fine del tour Mad Dogs & Englishmen. «All´inizio del tour pesavo novanta chili, alla fine sessanta», ricorda. «Ne venni fuori solo molti anni dopo. Mi riportarono alla luce You can leave your hat on nella colonna sonora di Nove settimane e 1/2 e Unchain my heart. Finalmente qualcuno afferrò le briglie del cavallo imbizzarrito. Incontrai mia moglie Pam – siamo sposati ormai da 23 anni – e la vita prese un altro ritmo. Anche se tutta la birra che ho ingurgitato mi ha lasciato questa in eredità», dice accarezzandosi il pancione.
Recentemente Leon Russell gli ha telefonato, voleva rimettere insieme Mad Dogs. «Non ci penso nemmeno, gli ho risposto, non ce la farei. Per fare quelle cose bisogna avere l´energia e l´incoscienza dei vent´anni. Oggi il mondo del pop è controllato dal denaro, non ha regole, è spregiudicato. Persino peggio di allora, perché è ancora più… pop. Ci sono fenomeni, come il rap, che ancora non riesco a digerire. Sarà anche l´espressione poetica dei ghetti neri d´America, tutto quel che volete, ma io un disco di rap per intero non riesco ad ascoltarlo. Per questo molto immodestamente mi sento un eroe quando mi dicono che i ventenni comprano ancora Mad Dogs».
Di quell´inferno che il rock gli ha mostrato da vicino non ne vuole più sapere. E anche la musica meglio prenderla a piccole dosi. Ormai ha scelto Pam, le montagne, l´aria buona, le giornate terse del Colorado. «La mattina esco con i cani e d´inverno, quando la neve copre ogni cosa, cado anch´io in un piacevole letargo», conclude. «A primavera pianto pomodori, quella è l´arte che mio padre mi ha insegnato, sapevo farlo anche prima di cantare. Ne coltivo una varietà enorme – anche trenta di diversa dimensione, colore e sapore – faccio arrivare i semi da ogni parte del mondo. A Sheffield ormai non ci torno mai. I miei amici non capirebbero perché il vecchio Joe non può più andare al pub».

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