RETORICHE RADICALI
RETORICHE RADICALI
Il convegno internazionale sul «pensiero italiano» che si è tenuto a fine settembre alla Cornell University di Ithaca (cfr. Tim Campbell, Quel milieu cresciuto fra ’68 e ’89, «il manifesto» 18/9) è stato un evento importante. Muoverò alcune critiche a ciò che è stato detto o non è stato abbastanza sviluppato, ma vorrei cominciare con qualche complimento. L’incontro, organizzato da Tim Campbell, ha mostrato tutta la vitalità e la risonanza di una riflessione condotta a partire dall’esperienza italiana degli ultimi decenni, e situata al punto di incontro tra filosofia, teoria politica, azione militante e cultura letteraria. Il tema del comune e delle commonalities è stato il filo rosso di tutte le relazioni. Si trattava quindi di aprire, almeno temporaneamente, uno spazio di dialogo, al di là delle nazionalità, delle lingue e dei luoghi fisici, che favorisca il pensiero di ciò che «ci» sarebbe comune, e di ciò che al comune si sottrae. Il confronto si è articolato in una molteplicità di dimensioni linguistiche (dai blog che commentavano l’incontro alla videotrasmissione dell’intervento di Toni Negri), di idiomi (l’inglese e l’italiano prima di tutto, ma anche il francese, lo spagnolo e qualche altra lingua), di retoriche (ritornerò su questo punto tra poco). E c’è da scommettere che l’evento di Cornell segnerà uno spartiacque, e contribuirà alla costruzione di un momento politico in cui la riflessione sulla resistenza all’egemonia della mondializzazione sappia appoggiarsi su un contesto preciso (italiano, in questo caso) per poi dipartirne per frammenti, invece di svilupparsi nella produzione automatica di una modellistica come fece una certa tradizione marxista.
Grazie alla caduta delle utopie sessantottine, alla fine della glaciazione brezneviana e poi al crollo del Muro di Berlino, in Francia e in Italia si è costruito un discorso filosofico attorno all’esaltazione della comunità (da Jean-Luc Nancy a Maurice Blanchot a Giorgio Agamben). Questo tema ha finito per virare verso l’incantesimo profetico, «la» comunità è diventata una sorta di archi-concetto, di cui occorrerebbe attendere la realizzazione, e che fornirebbe il meglio del comunismo, senza gli inconvenienti del totalitarismo e con altri vantaggi. Ma anche se inclusa nel dominio del negativo (l’«inoperosità», «il chiunque») questa nozione della comunità è un’idea troppo generale che rischia di diventare prescrizione messianica. Nell’insieme i partecipanti al convegno hanno avuto il merito di non sacrificare molto a una simile mistica. In effetti, può esserci comune senza necessariamente ipostatizzarsi nella comunità trascendentale. Il discorso di Roberto Esposito, presentato nella forma di una favola concettuale, ricordava inoltre che la comunità non è per forza l’oasi di pace, il generoso rifugio della differenza che ci si sforza di dipingere. Uno scoglio è stato quindi evitato, e si è riusciti a non costringere la politica in un programma unitario.
Per i partecipanti, invece, si è rivelato più delicato disfarsi di una forma autoritaria della parola che si situa tra la sicurezza professorale e l’incrollabile certezza del militante di professione. Ci è toccato così anche qualche roboante accento tribunizio, qualche infilzatura una dopo l’altra di perle dialettico-materialistiche secondo un impeccabile schema generale tutto in ultima istanza, un po’ d’esposizione ipnotica per corsi di filosofia, e un po’ di easy listening ad uso e consumo dell’accademia americana. E’ sorprendente che l’economia politica della parola sia così poco considerata in un contesto come questo. In particolare mi preoccupa che l’effetto di dominio che deriva dalla verbalizzazione dell’auctoritas sembri sprofondare sempre più nell’oblio tra i teorici della radicalità, anche al di là dei limiti di questo convegno. Nel caso specifico, brandire lo scettro retorico, un gesto che si concilia facilmente con le ricadute nel fallocentrismo denunciate da Ida Dominijanni nel suo intervento sulle «ferite» del comune, rischia di neutralizzare in anticipo la portata propriamente rivoluzionaria ricercata da più di un oratore.
Vorrei terminare con la breve segnalazione di tre problemi che il convegno ha messo in evidenza. Questi problemi sono stati solo indirettamente presenti nella discussione, e il loro occultamento spiega a mio avviso i limiti attuali di una certa riflessione collettiva. Innanzitutto, il dibattito ha mostrato che, anche una volta scartate le seduzioni della comunità nel senso che ho accennato poc’anzi, il prestigio del comune resta troppo forte e indiscusso. In modo quasi sistematico, il comune ha finito con il designare quasi tutto l’inter o il dominio della circolazione. Ora, ciò che noi dividiamo può esserci comune, ma non deve esserlo necessariamente. Per esempio, la vita come fatto ci è comune e con essa certe forme di produzione di bìos o di zoè, mentre la «vita comune» tra alcuni di noi designa soprattutto una con-divisione di esistenza, e le linee che la influenzano attraversando il fatto di vivere, lo spazio politico normato o noi come soggetti o collezione di piccoli io. Sussumere la molteplicità delle condivisioni nell’identità (anche polimorfa) del comune mi sembra una semplificazione che va nel senso di una politicizzazione totalizzante dell’esperienza.
Da qui, due osservazioni finali. Da una parte, stando alle proposte dei partecipanti e con la brillante eccezione di Franco Berardi che ha proposto una sorta di pratica di sottrazione attiva, sembra che la principale forma di azione politica risieda ormai in una critica dei poteri e, per lo meno per Michael Hardt, sulla scia del recente Common Wealth suo e di Negri, in una pratica ancora alquanto indeterminata dell’amore.
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Non voglio neppure per un secondo minimizzare l’importanza cruciale della critica. Ma che cosa c’è d’altro? Dopo aver eliminato il tecno-utopismo che è una retorica portante del capitalismo cognitivo e in attesa di una ridefinizione (secondo me pericolosa) delle relazioni sentimentali, oggi restano, al di là di ciò che è stato detto durante il convegno, le figure dominanti e ambigue dell’insurrezione e del comune. In che modo esse comunicheranno, è per il momento ancora un’incognita. Allo stesso modo, niente stabilisce che l’attuale ripetizione dell’insurrezione (nelle banlieues francesi, in America latina, in Cina, in Grecia) possa mai sfociare in qualcos’altro, niente garantisce che il comune della vita non riproduca, come in effetti è accaduto mille volte, la trama del potere a un livello micropolitico.
Infine, e d’altra parte, è tempo di pensare che la politica stessa, per tentare una dominazione radicale, non è tutto. Più intendo combattere, con le mie armi e i miei mezzi, l’azione distruttrice delle politiche – più mi sembra urgente resistere altresì alle pretese di un divenire politico assoluto. Rispetto a questo, se è vero che la letteratura e l’amore sono espressioni politiche, è urgente sottolineare al tempo stesso che esse sfuggono alla politica, e che noi dobbiamo favorire questa loro eccedenza. Queste vie d’uscita, insieme ad altre comparabili, ci indicano la fugace possibilità di vivere al di fuori della polis. E suggeriscono un compito complesso, che consiste nel riconoscimento di un’estremità non-politica che può rivelare una pratica a sua volta estrema di rifiuto e di affermazione. Oltre all’urgenza di ridefinire il comune al di là delle politiche e secondo altri ordini, forse è anche il momento di proclamare una vita migliore che sappia sganciarsi dalla politica.
(traduzione di Graziella Durante)
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