I racconti in versi di Bernardo Atxaga

INTERVISTE Stasera l’autore basco al festival di Monfalcone

INTERVISTE Stasera l’autore basco al festival di Monfalcone

Avrebbe dovuto fare l’economista, ma ha preferito cedere alla «deviazione» della letteratura, Bernardo Atxaga, considerato oggi il maggiore autore vivente in lingua basca. Atxaga (pseudonimo di Joseba Irazu Garmendia) è nato nel 1951 ad Asteasu, un villaggio dei Paesi Baschi immerso in un mondo antico e ricco di leggende che ha ispirato molte delle sue opere. In un percorso ormai quasi quarantennale, dall’esordio nel 1972, ancora sotto il regime franchista (che non vedeva di buon occhio le pubblicazioni in lingue minoritarie come l’euskera) fino a oggi, lo scrittore ha attraversato diversi generi: narrativa, saggistica, letteratura per l’infanzia, poesia.
Proprio per un reading poetico Atxaga torna in Italia, a distanza di anni, al Festival «Absolute (young) Poetry»: sarà infatti in scena questa sera con una lettura di versi, al Teatro Comunale di Monfalcone – ed è appunto alla vigilia dell’incontro che lo abbiamo intervistato.
«Scrivo in una lingua strana», così comincia Obabakoak, il libro che l’ha fatto conoscere al grande pubblico. Una lingua – continua nel prologo – ostinata, che è sopravvissuta chiudendosi a riccio, e alla fine, nel XX secolo, il riccio si è svegliato. Un suo libro di versi successivo, Dall’altra parte della frontiera, inizia con l’immagine di un riccio che, a causa del suo lessico limitato, «non riconosce le luci della nostra macchina, / e nemmeno si accorge che morirà». Rischia di fare questa fine la lingua basca?
Non lo so. È vero che, come diceva Esiodo nella favola dell’usignolo e del falco, c’è la legge del più forte, e qualsiasi persona appartenente a un gruppo minoritario sa che avrà delle difficoltà. Nel caso delle lingue, se addirittura il francese sembra faticare in Canada nonostante il forte sostegno politico e la buona predisposizione dei canadesi verso questa lingua, è logico pensare che il futuro della lingua basca non sarà tutto rose e fiori. Tuttavia, credo che negli ultimi cinquant’anni ci sia stata una straordinaria ripresa grazie alla quale la nostra lingua è in crescita e fortemente radicata nella società. È molto importante che la parlino i giovani. Ormai si può leggere molto in lingua basca: dal Gattopardo, per esempio, alle opere di autori come Pavese, Natalia Ginzburg, fino a Tabucchi e a Celati…
La sua è una poesia essenzialmente narrativa, in cui poco spazio resta per l’io lirico («cosa sono, io?, sono un contenitore off di tutte le dispersioni», scrive in Perfino nei bar), mentre appare determinante la dimensione del raccontare storie. In questo senso, potrebbe essere tracciata una linea rossa che unisce tutte le sue opere. Quali sono, invece, i punti di contrasto, di rottura, tra la sua scrittura in versi e quella in prosa?
In effetti sono pochissimi. Due settimane fa ero a Bilbao per la lettura di Funerale per un soldato morto in Iraq e, prima di iniziare, ho voluto chiarire che non si trattavano di poesie in senso convenzionale, perché sono convinto che la poesia si esprima meglio in forme non tradizionali. Ritengo che la principale differenza tra poesia e prosa sia il ritmo, e per crearlo non serve scrivere necessariamente un sonetto, anzi. Adesso perfino la pubblicità impiega toni in qualche modo lirici per vendere auto di lusso o per elogiare i calciatori di moda, quindi sarebbe ridicolo seguire quella via per dire qualcosa di interessante o significativo.
Alcuni suoi libri – ad esempio L’uomo solo, Sotto un altro cielo, Il libro di mio fratello – trattano un argomento complesso come quello della lotta armata. Accanto ad essi, vi sono libri come Obabakoak e Storie di Obaba, che ruotano attorno a un luogo immaginario e metaforico. Come riesce a far stare in equilibrio l’istanza civile, il desiderio di indagine del reale, assieme al gusto per la piacevolezza del gioco letterario, per il dettaglio, per la grammatica della fantasia?
Non so se conosce l’aforisma di Valéry che dice «Non sempre sono della mia opinione»: a me capita di non essere più della mia opinione con il passare del tempo. Ho iniziato a scrivere, con Obabakoak e altri libri, sul mondo della mia infanzia: una società che non aveva mai sentito parlare di Freud o Lenin, e che per esprimere le proprie paure si avvaleva di storie di animali o fantasmi, oppure di storie bibliche. Ma poi, quando avevo circa vent’anni, è nata l’Eta, e quindi ho trovato un altro mondo di cui parlare. Così ho scritto L’uomo solo o Sotto un altro cielo. Ora ho già chiuso con quel secondo periodo e ho cambiato opinione di nuovo: il mio ultimo romanzo, Sette case in Francia, è un po’ grottesco.
Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Nikolasa. Edito in lingua originale nel 1979, inaugura la sua corposa produzione letteraria per l’infanzia, di cui fa parte anche Alfabeto sulla letteratura infantile, un saggio in cui lei contrasta i pregiudizi che tuttora questo genere subisce. Perché è importante scrivere per i bambini e per i ragazzi?
Non so se è importante, ma se lo fosse, sarebbe meglio non dirlo, dato che quello che è importante non interessa a nessuno: si dice di sì, ma è soltanto farisaismo. Per quanto riguarda me, scrivo letteratura infantile o giovanile quando sono di buon umore. Ecco una cosa importante e difficile da trovare: il buon umore!
A quale opera sta lavorando adesso?
Sto scrivendo un libro di nome Un poeta in Nevada: ho trascorso quasi un anno lì, a Reno, invitato dal Center for Basque Studies, e l’esperienza mi ha lasciato un segno molto forte. Ho avuto una crisi poetica. Il libro dovrebbe raccontare, al contrario di Poeta a New York di García Lorca, la storia di un poeta che arriva in Nevada con una collezione di poesie, e che parte avendo buttato tutte quelle poesie nel cestino.

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