Carlos e i miei anni Settanta

Olivier Assayas parla del suo film, negli Eventi speciali al Festival di Roma che si apre oggi. Un ritratto del terrorista che iniziò combattendo per la liberazione della Palestina, e divenne un mercenario, ambiguo, seduttore, manipolato e manipolatore, presenza costante nei misteri di stato della nostra Storia recente. «Il punto di partenza è stato l’impossibilità  di filmare i fatti come vengono raccontati»

Olivier Assayas parla del suo film, negli Eventi speciali al Festival di Roma che si apre oggi. Un ritratto del terrorista che iniziò combattendo per la liberazione della Palestina, e divenne un mercenario, ambiguo, seduttore, manipolato e manipolatore, presenza costante nei misteri di stato della nostra Storia recente. «Il punto di partenza è stato l’impossibilità  di filmare i fatti come vengono raccontati»

Ci sono due cose da dire come premessa a Carlos, il film che in cinque ore ripercorre la vita del terrorista più ambiguo della storia recente. Primo nasce su commissione, è Canal + a chiedere a Olivier Assayas, tra i più cinefili dei registi d’oltralpe se vuole confrontarsi con questa diversa «misura» delle immagini. Secondo non è una biografia, non in senso stretto almeno, ripercorre i passaggi storici fondamentali ma è soprattutto la visione del regista a guidare il ritmo della storia. Iniettandoci l’esperienza personale degli anni Settanta – nonostante le basquette e la faccia da ragazzo Assayas ha cinquantacinque anni – e il suo gusto per un cinema febbrile, che accetta la scommessa senza rinunciare alla sua grinta di misurarsi con la follia del personaggio risucchiandola nelle sue immagini. Difatti Carlos appare nelle prime sequenze come una rock star col bisogno frenetico di successo. Sfrontato, manipolatore e manipolato, Carlos al secolo Ilich Ramirez Sanchez, venezuelano nato nel ’49, arrestato in Sudan, a Kartum nel ’94, condannato all’ergastolo, convertito all’Islam , nel 2001 sposato per la terza volta con il suo avvocato, Isabelle Coutant-Peyre, è l’imprendibile primula rossa del Fronte popolare di Liberazione palestinese tra gli anni ’70 e ’80, diventando poi il simbolo stesso del fallimento del terrorismo armato in Palestina e fuori, depositario bene informato dei tanti segreti di stato che hanno puntellato questi ultimi decenni del mondo. Idealista e mercenario, forse sempre un infiltrato al soldo di qualche potente, dandy e seduttore irrefrenabile col mito di sesso&pistola, Carlos è declinato tra momenti storicamente verosimili, molti passaggi a effetto – la scena in cui si guarda allo specchio controllando la sua virilità o scopa toccando la ragazza con l’arma – e le proiezioni del regista.
Allo scorso festival di Cannes Carlos è stato presentato nella versione integrale di 5 ore fuori concorso con molte (assurde) polemiche sull’opportunità di mostrare a un festival di cinema un prodotto televisivo (vista la qualità visuale dei nostri cineasti almeno il 90% dei film italiani non si dovrebbero invitare a un festival. E certo poi che se per quanto riguarda la televisione il massimo per i nostri Mediaset/Rai è Romanzo criminale siamo davvero messi male … Al festival di Roma, che si apre oggi, Carlos è tra gli eventi speciali (il 2 novembre).
Olivier Assayas lo avevamo incontrato sulla Croisette.
Cosa l’ha convinta a accettare la proposta di Canal +?
Carlos è un personaggio emblematico per confrontarsi con la storia politica degli anni Settanta e Ottanta. Ci aiuta a capirla meglio … Inizia il suo percorso con motivazioni idealiste per divenire poi un mercenario. L’epoca del film, specie nelle due prime parti, è quella della mia adolescenza, dell’utopia politica che ho conosciuto. Fare questo film era dunque anche un modo per tornare a quel periodo, di riflettere sulle cose che erano state fondamentali nella mia vita e che allora non avevo potuto filmare. Nel cinema, almeno per me, c’è sempre un’ossessione adolescenziale come punto di partenza. Per questo posso dire che Carlos è un film che fa parte come gli altri della mia storia.
Come ha lavorato nella fase di preparazione?
Abbiamo fatto molte ricerche, archivi, testi, articoli, biografie, ne sono state scritte almeno una decina. C’era uno staff che lavorava su questo, io ero insieme a loro e cercavo nei materiali che mi sottoponevano gli spunti giusti per il film. Avevo molte domande, c’erano infinite cose che non sapevo come avrei tenuto insieme … C’erano anche molti punti oscuri, nomi, date, in diversi casi ci è stata utile la rete. Spesso ci siamo trovati davanti passaggi a cui era impossibile trovare una coerenza narrativa. Le stesse versioni degli storici su questo o quell’altro fatto presentano quando ci si trova sul posto per filmare delle incongruenze fortissime. L’impressione è che nessuno sia mai andato a verificarle … E questo vale anche per le testimonianze al processo, in alcune ricostruzioni ci sono dei punti poco convincenti. La cosa strana per era me è stata proprio questa: da una parte dover seguire le testimonianze ufficiali, dall’altra trovarmi a verificare più volte che dal punto di vista della messinscena ci si muoveva nel non-detto. E però non potevo filmare altro perché non c’erano le prove … Nella ricostruzione questa dualità è una delle caratteristiche principali del lavoro di finzioni. Molte risposte mi sono arrivate mentre giravo, anche se come dicevo, ho cercato di mettere insieme più informazioni che potevo per essere esatto. Carlos prende vita in una narrazione che viene direttamente dalle sue parole, o dalle parole di altri, e come dicevo dietro alla macchina da presa capisci quanto tutto ciò possa essere assurdo e al tempo stesso riesci a dargli un ordine.
Il fatto di lavorare per la televisione l’ha condizionata in qualche modo?
No, per niente. Non c’era la televisione nella mia testa, sono sempre stato libero in ogni momento del film. Anche se non lo rifarei ma per ragioni del tutto diverse. Troppa fatica, troppe difficoltà, forse per lavorare con calma ci sarebbe voluto almeno il doppio del budget che era dodici milioni di euro.
Aveva un’idea di Carlos quando ha iniziato il film?
Non volevo trasmettere allo spettatore un’immagine a senso unico, questa era la mia idea principale, perché non mi piace quel cinema che a partire da un personaggio, reale o immaginario che sia, confeziona una visione chiusa, che non lascia spazio alle domande e alle interpretazioni. Perciò non mi sono posto il problema di un «approccio» alla figura di Carlos, ho cercato di mettere insieme dei fatti, ho «interpretato anche il personaggio, ci ho messo elementi di finzione, specie nel privato, ma come dicevo il solo approccio è in quella contraddizione tra i racconti ufficiali e la loro realtà possibile. Non ho molte teorie su di lui. Di certo dall’omicidio della rue Toullier, a Parigi quando uccide i due agenti il 27 giugno del ’75, non ha più possibilità di tornare indietro. Forse se non lo avesse fatto sarebbe rimasto un terrorista come tanti. Carlos è in carcere, altri hanno negoziato la loro libertà, lui paga quando sono molti quelli che non lo hanno fatto. Ci sono terroristi di stato che in certi momenti risultano utili, e in altri diventano un peso. Spesso vengono protetti perché se si va a scoprire le loro verità si rischia di arrivare allo stato stesso. Per questo nessuno si preoccupa di andarli a ripescare o di giudicarli.
Parlava della sua esperienza degli anni Settanta, ci può dire in che modo è entrata nel film?
Visto che sono cresciuto in quegli anni ho conosciuto direttamente l’ambiente in cui si muoveva Carlos, ho incontrato molti militanti sudamericani che vivevano a Parigi, e non solo, che si muovevano in quella sinistra europea internazionalista, che guardava alle rivoluzioni nel mondo. Non è paragonabile con l’idea del terrorismo «alla» Osama bin Laden che si ha oggi.
La musica ha un ruolo molto importante nel film.
Mentre scrivevo non avevo nessuna idea della musica che avrei usato. Le scelte le ho fatte al montaggio, ho scelto diversi pezzi che avevo in mente e hanno prodotto un’energia completamente inattesa. Come la scena in cui Carlos arriva a Beirut …

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