La pubblicazione dei testi e del carteggio sulla tirannide di due grandi teorici conservatori come Leo Strauss e Alexandre Kojève ruota attorno al rapporto del potere politico con i filosofi. E se i tiranni cercano l’amore dei dominati, i «migliori» li usano per sfuggire al disprezzo del popolo
La pubblicazione dei testi e del carteggio sulla tirannide di due grandi teorici conservatori come Leo Strauss e Alexandre Kojève ruota attorno al rapporto del potere politico con i filosofi. E se i tiranni cercano l’amore dei dominati, i «migliori» li usano per sfuggire al disprezzo del popolo
Dopo avere fondato il Partito dell’Amore, Gerone riconosce che il popolo non può amare i tiranni. A differenza dei suoi colleghi Dionigi di Siracusa o Periandro di Corinto, per non parlare del Caimano che ci governa, Gerone vorrebbe trattare i sudditi come amici onorati e non come bambini obbedienti. Ma sa che questo è impossibile. La sua è la tragedia di un amore impossibile.
Nell’omonimo dialogo scritto da Senofonte, commentato nel 1948 da Leo Strauss e successivamente da Alexandre Kojève, oggi ripubblicato in un’edizione arricchita dalla corrispondenza che i due filosofi si scambiarono per un trentennio (Leo Strauss e Alexandre Kojève, Sulla tirannide, Adelphi, pp. 397, euro 48), Gerone confessa a Simonide, filosofo epicureo con tendenze socratiche, che il consenso popolare è un sorriso nel buio. Gli amici di oggi saranno i persecutori di domani. La tirannia può soddisfare just-in-time l’eros autoritario del Capo, ma per lui non ci sarà mai pace. Anche se fugge all’estero, verrebbe raggiunto dai suoi giudici. Gerone odia se stesso. La cosa migliore che un tiranno può fare è impiccarsi.
Il dialogo ha un risvolto comico. Senofonte separa il personaggio Gerone dal suo ruolo politico di tiranno, lo spinge a mettere in scena una verità che mai confesserebbe in pubblico. In questo modo la sua diventa la più dura requisitoria che un tiranno abbia prodotto contro se stesso prima della Resistibile ascesa di Arturo Ui dedicata da Brecht a Hitler.
Strauss e Kojève sostengono che Simonide è il vincitore del dialogo con Gerone perché impone la sua superiorità morale del filosofo sul tiranno. È comprensibile che Senofonte, scrivendo questo dialogo, si sia preso la rivincita contro il tiranno che lo esiliò. È lo stesso motivo che spinge Strauss e Kojève a scrivere i loro commenti non privi di fascino. Il primo fuggì da Hitler negli Stati Uniti, il secondo da Stalin in Francia. Ma che siano sufficienti l’altruismo, l’amore socratico per un dialogo ben regolato o la passione per la conoscenza affinché un politico si convinca a farsi educare dal filosofo è un’idea quasi più comica dell’esistenza della tirannide. Come lo è quella per cui Simonide abbia rinunciato a prendere il posto del tiranno solo perché la sua vocazione per la vita filosofica non lo permette. Dunque, il vero protagonista del dialogo è il Gerone che si annida in Simonide, il tiranno che il filosofo vorrebbe essere, ma che non sarà mai. Il tema è l’impotenza del pensiero politico, non la superiorità della filosofia sulla politica.
La scienza dei migliori
Le ragioni che hanno spinto due intellettuali liberal-conservatori come Kojève e Strauss a preferire quest’ultimo tema sono note. Di nobili origini, ma non di facile consumo, la filosofia non ha mai goduto di grande popolarità tra le masse. Il pensiero conservatore è ossessionato dal timore di non riuscire a trovarle una collocazione nella divisione moderna del lavoro intellettuale. Per questa ragione, Strauss attribuisce alla filosofia il ruolo di «scienza» che interpreta la saggezza dei classici per parlare in codice del presente. Una scienza che servì a rivelare le antinomie della filosofia politica.
In questa idea di filosofia si riconosce una precisa scelta politica dell’intellettuale: la condanna della modernità che non ammette l’esistenza di un Bene superiore, distrugge i valori della «ragione» e della «civiltà», preferendogli il consumismo, i piaceri dell’effimero, il nichilismo delle filosofie desideranti. Per Strauss il governo dei migliori – gli aristoi – è l’unica soluzione contro queste illusioni del progresso. Critico del liberalismo, in quanto prodotto della modernità, ma liberale per convinzione, egli difese le ragioni della democrazia americana. Una contraddizione, visto che quel modello democratico non è certamente il governo dei migliori e, al contrario, rafforza la modernità capitalistica. La stessa contraddizione ricorre in pensatori come Isaiah Berlin, nei teorici del totalitarismo e tra le losche baionette dei neoconservatori americani. Per buona parte del XX secolo essa ha alimentato la guerra antilluminista, anticomunista e infine quella antislamica.
Nel suo commento al Gerone di Senofonte, Kojève fornisce tutt’altra rappresentazione della modernità. Non condanna l’illuminismo, il suo storicismo e il suo relativismo, ma pensa che la società si costruisca con uomini privi della coscienza dei vincoli sacri e sia guidata da soggetti spinti dal desiderio di essere riconosciuti dall’Altro. Kojève sostiene che i filosofi sono tiranni del pensiero attratti dalla tirannide politica. Sempre con lo sguardo alle lancette dell’orologio, i filosofi elargiscono consigli ai politici, ma non vedono l’ora di farla finita con la politica. Ogni minuto è tempo rubato alla passione erotica della loro vita: il pensiero. Il tiranno deve ascoltare ciò che di buono hanno da consigliare i custodi delle idee eterne e provvedere rapidamente alla riforma dello Stato.
Nel 1945 sarà stata grande la soddisfazione di Kojève nel passare dalla precaria occupazione di riconosciuto filosofo maudit a quella di tecnocrate al servizio degli affari economici europei del nazionalista De Gaulle. Troppo poco, forse, per realizzare la sua profezia di uno «Stato omogeneo universale», quella singolare visione della tecnocrazia globale che avrebbe dovuto coniugare l’uguaglianza comunista con la produzione capitalista. Ma abbastanza perché questo esercizio filosofico orwelliano entrasse in sintonia con l’illusione platonica della filosofia alla guida dello Stato o con la tentazione del rettore Heidegger di sussurrare il messaggio dell’Essere all’orecchio di Hitler. È quanto basta per convincere Strauss a siglare con Kojève una tregua in nome dell’antica egemonia della filosofia sulla politica. Caro Kojève, scrive Strauss, abbiamo parlato della Tirannide, ma non abbiamo fatto altro che parlare dell’Essere. All’ultima riga a pagina 235 di questo costoso hard cover adelphiano, ecco scattata l’istantanea dell’intellettualità europea prima che la secolarizzazione la sottraesse all’ultimo pasto a base di «Valori Assoluti».
Nulla, poi, è stato come prima. La rottura del gentlemen’s agreement tra la filosofia e la politica operata dai totalitarismi moderni prima e dall’economia capitalistica della conoscenza poi, l’annientamento del ruolo sociale della filosofia, l’elezione del mercato editoriale a unico giudice del Bene e del Male, non hanno tuttavia convinto i filosofi a rinunciare al Gerone che è in loro. Hanno inventato nuove religioni, quella dell’Essere è la più ricorrente, si sono proposti nelle vesti di guru accademici, uomini di mondo o di azione, convinti di essere liberi dai tiranni che governano la città degli uomini perché nessuno può mettere in discussione il loro potere nella città delle idee.
Di questo complesso di Gerone Strauss e Kojève offrono due interpretazioni: per il primo, il filosofo è un «saggio» disinteressato cultore delle verità eterne che rendono affidabile il suo desiderio di educare gli uomini. Per il secondo, il filosofo è un intellettuale che partecipa al progetto pedagogico dello Stato moderno, ne è il principale interprete e – in qualità di amministratore regolarmente retribuito – lavora come mediatore tra le masse e il potere.
Il disprezzo del popolo
In entrambe le versioni, l’intellettuale elabora una professione di fede liberale a beneficio dei suoi principali avversari: il tiranno e il popolo. Sia nell’antica versione di consigliere del tiranno, sia in quella più moderna di specialista della pedagogia statale, l’intellettuale non è interessato al consenso. La tirannide dell’intellettuale si basa su una forma di auto-ammirazione per le idee che professa e non ha bisogno di alcuna conferma per sapere che esse sono ragionevoli. Amante delle passioni ben ordinate, e custode delle idee che permettono di comprendere il Bene, l’intellettuale non è costretto a parlare con tutti. A differenza del tiranno, egli può permettersi di inventare un linguaggio in codice e conversare amorevolmente solo con chi rispetta le sue idee. Una pretesa che genera nel popolo diffidenza, se non proprio disprezzo, dal quale l’intellettuale può sottrarsi chiedendo protezione al tiranno al quale però deve concedere una parte della sua sovranità.
Il complesso di Gerone avrebbe potuto riscuotere un certo successo in una società in cui le esigenze della produzione fossero state temperate dalla naturale moderazione di un governo di saggi o di tecnocrati umanisti. Così non è mai stato nel trentennio in cui, mentre Strauss e Kojève si scambiavano considerazioni su Senofonte, l’industria fordista arrivava al suo apogeo, la guerra fredda colpiva e la lotta di classe era matura. E lo è ancora meno in una società come quella attuale che nutre disprezzo il lavoro intellettuale.
Il complesso di Gerone che Strauss e Kojève pensavano di avere imbrigliato nella vita privata del filosofo oggi si è riversato nelle piazze. La generalizzazione del cesarismo tra i tiranni, gli intellettuali e il popolo a cui assistiamo è la loro pena del contrappasso. Le prerogative che i filosofi pensavano di avere riservato a Simonide, nelle società del cesarismo avanzato assicurano il prestigio sociale. Con gli strumenti che garantiscono la persuasione, ma non la convinzione, ci viene detto che tutti, nessuno escluso, vorrebbero essere amati e farsi amare dal «pubblico»; incutere rispetto negli amici e nei nemici con la forza delle idee, l’importante è che siano le proprie; liquidare la penosa razza degli «specialisti» e degli «estremisti» e far coincidere il bene comune con quello personale.
In nome della moderazione
Rispetto a questa instancabile ricerca dell’unanimismo e della moderazione degli opposti, il timido impegno liberale che Strauss e Kojève profusero nel tentativo di garantire il conflitto tra il filosofo e la polis, tra gli intellettuali e il potere, sembra una lontana utopia sovversiva. Il primo pensava che il filosofo dovesse sottrarre la verità alla politica, mentre il secondo sperava di liquidare la filosofia per rendere eterno lo Stato. Ma ad uno sguardo meno influenzato dalle differenze di gusto che oppongono i liberal-conservatori al populismo contemporaneo, non è difficile scoprire ciò che accomuna il complesso di Gerone degli uni e degli altri. Poco importa, infatti, che per i liberali la verità sia nascosta agli occhi del popolo e dei tiranni mentre per i populisti essa è esposta agli sguardi di tutti. Per entrambi la verità è proprietà di qualcuno, degli intellettuali oppure del consenso.
Ciò che era intollerabile nella polis di Gerone, e resta intollerabile in quella dei nuovissimi Cesari, è che la verità non è quella privata o quella ufficiale, ma il risultato di un «esame di se stessi e degli altri»” che tutti possono intraprendere, non solo i filosofi e i tiranni. Socrate fu condannato per questo invito all’esercizio generalizzato dell’autonomia e della conoscenza e la sua venne interpretata come una sfida alle «repubbliche delle lettere» e alle «sette accademiche» esistenti nella polis. Tronisti di successo, o reticenti specialisti dell’anima, gli «intellettuali» non avranno pace fino a quando troveranno normale coltivare gli stessi desideri dei vecchi tiranni e di quelli nuovi.
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