Spie italiane in crisi allo specchio del crollo dell’Urss

Tempi di guerra fredda 2.0. A rinnovare il mito consunto della spia sovietica non bastava il supereroe Putin col suo grigio passato nei servizi. Per Anna (Kuscenko) Chapman, la femme fatale arrestata dagli americani, più che di rimpatrio si è trattato di una rimpatriata: con tanto di canti, patriottici per l’appunto, intonati insieme al premier.
Il tema dell’italiano spia del Kgb non è nuovo, basti pensare al romanzo di Sandro Veronesi La forza del passato. Ma il neoscrittore Antonov offre una prospettiva diversa, quella di chi si trova dietro la cortina sovietica. La prospettiva (adattamento di prospekt, grossa arteria cittadina) Lenin. O meglio, la prospettiva del compagno Lenin.

Tempi di guerra fredda 2.0. A rinnovare il mito consunto della spia sovietica non bastava il supereroe Putin col suo grigio passato nei servizi. Per Anna (Kuscenko) Chapman, la femme fatale arrestata dagli americani, più che di rimpatrio si è trattato di una rimpatriata: con tanto di canti, patriottici per l’appunto, intonati insieme al premier.
Il tema dell’italiano spia del Kgb non è nuovo, basti pensare al romanzo di Sandro Veronesi La forza del passato. Ma il neoscrittore Antonov offre una prospettiva diversa, quella di chi si trova dietro la cortina sovietica. La prospettiva (adattamento di prospekt, grossa arteria cittadina) Lenin. O meglio, la prospettiva del compagno Lenin.

Il bel quadro di Erik Bulatov riprodotto in copertina, uno degli esempi più famosi di soc-art, l’equivalente sovietico della pop art dove al posto dei beni di consumo l’oggetto feticcio è il kitsch della propaganda ideologica, farebbe pensare a una parodia sulle rovine del tempo che fu. E invece no. Qui si fa sul serio, tranne forse quando l’autore (Antonio Fallico), personaggio del mondo finanziario approdato alle altissime sfere del firmamento istituzionale russo, adotta lo pseudonimo di Anton Antonov. Nome e cognome che non soltanto civettano con la verità anagrafica dello scrittore, ma giocano uno con l’altro in una sorta di tautologia esistenziale. Tale modello onomastico, che indica l’uomo semplice, senza qualità, è lo stesso che si ritrova nel nome del protagonista, Salvatore alias Ivan Ivanovic Ivanov, un po’ come dire Mario Rossi. «Un nome comune, utile per fare lo spelling ai duri d’orecchi, e altrettanto efficace per renderti anonimo e scomparire, se necessario».
Per il resto, si diceva, la storia è serissima. Anzi, le due storie che, serpentinando a capitoli alterni attraverso il romanzo, raccontano il prima e il dopo la crisi di Salvatore e dell’Urss (la prima è specchio della seconda) per ricongiungersi, a lettura finita, in una trama compiuta. Dal profondo sud siciliano uno studente di sinistra e amante del russo si trasferisce a Mosca dove diventa prima manager di un’azienda italiana e poi agente del Kgb. Viene spedito in missione in Italia, però la copertura salta. Torna in Russia dove, estromesso dai servizi e piantato dalla bella Natasa, conduce un’esistenza grama ravvivata dalla presenza platonica di un’altra donna, antitesi ideale della prima, l’anziana Natalija.
A fare da contrappunto alla crisi esistenzial-ideologica del protagonista che somatizza l’avvicinarsi della, come direbbe Putin, «più grande catastrofe geopolitica del XX secolo», c’è la storia dell’ultimo quarto del ‘900. Sullo sfondo della vicenda, ambientata principalmente in una Mosca descritta con passione meteorologica, si scatenano i movimenti tellurici della grande politica.
La versione offerta della storia recente coincide con la lettura dominante dell’epoca putiniana: viva il comunismo di ieri («A ripensarci, so che l’Idea me la porterò dietro fino alla tomba») più l’edonismo di oggi («L’edonismo può essere pratica di vita, motore per una nuova rivoluzione»), abbasso gli anni el’ciniani delle riforme liberali.
Il tono sostenuto e la sovrabbondanza di aggettivi generano un’impressione straniante, come se si stesse leggendo un romanzo sovietico. Ma, a differenza del Romanzo russo di Alessandro Barbero, qui la mimesi pare inconsapevole. L’effetto sovietizzante è intensificato da una scrittura didascalica da guida turistica («Se poi si spingeva lo sguardo più in là, si riusciva a scorgere la ploscad’ Kaluzhskoj Zastavy, al centro della quale si ergeva l’imponente monumento a Jurij Gagarin») traboccante di termini russi traslitterati sovente secondo estro personale, tra i quali alcuni facilmente traducibili in italiano (sapoghi (sic) «stivali», tapocki «pantofole»). Il tutto senza note: come a dire, se volete capire, studiatevi il russo.
Godibili per il lettore italiano sono alcune riflessioni sull’Urss, sull’alcol, sulla sauna russa, sulla vita della nomenklatura e dei cittadini comuni che restituiscono il sapore del vissuto sovietico. Da leggere, per i nostalgici integrati, o per chi vuole vederci una cosciente intenzione postmoderna.

LIBRI: ANTON ANTONOV, PROSPETTIVA LENIN, FELTRINELLI, PP. 220, EURO 15

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