Sguardi partigiani su una guerra nascosta

Un libro «smaccatamente sbilanciato», che non spiega la guerra, ma «tenta di raccontarla da un’altra angolazione, dalla parte degli afgani. Per arrivare alla conclusione che è un’impresa impossibile». Con queste parole Emanuele Giordana, giornalista e collaboratore di questo giornale, presenta il suo ultimo lavoro, Diario da Kabul. Appunti da una città  sulla linea del fronte.

Un libro «smaccatamente sbilanciato», che non spiega la guerra, ma «tenta di raccontarla da un’altra angolazione, dalla parte degli afgani. Per arrivare alla conclusione che è un’impresa impossibile». Con queste parole Emanuele Giordana, giornalista e collaboratore di questo giornale, presenta il suo ultimo lavoro, Diario da Kabul. Appunti da una città  sulla linea del fronte. Un testo – avverte l’autore – che nasce da un «peccato originale»: l’idea di assemblare articoli e reportage dall’Afghanistan con le riflessioni personali affidate a un blog (http://emgiordana.blogspot.com/), «quei pensieri liberi che si riversano in un diario» e che non rientrano nei tradizionali canoni giornalistici.
Il risultato non è però un testo «scarno, casuale e intermittente», come giudica Giordana, ma ben orchestrato e del tutto coerente. Perché attraversato da due forti tensioni, che si alimentano a vicenda. Da una parte l’insofferenza verso la necessità imposta dai protocolli professionali di disfarsi quanto più possibile del proprio orientamento etico e personale per distillare articoli di presunta neutralità allo stato puro; dall’altra, la volontà di superare quelle «separazioni artificiali e psicologiche» che dividono noi e l’Afghanistan, «due mondi separati e paralleli tra cui cova un misto di odio e amore». Questa prima tensione si manifesta innanzitutto in una esibita ironia, che funziona anche in chiave narrativa, perché prima ancora che sugli altri è esercitata su di sé. Su un giornalista consapevole del rischio di essere «sempre al centro della sua stessa attenzione», e che non nasconde limiti, paure e debolezze, rivendicando anzi la distanza dal «cronista di guerra inviato tra le sofferenze altrui, eroe impavido cui è concesso raccontare gli orrori e mettere il giubbetto antiproiettile a reti unificate». E porta Giordana a reclamare il diritto di esprimere giudizi e valutazioni su un ampio spettro di irrisolte questioni afghane: dalle stragi di civili («il lato più dolente della guerra afgana») al rapporto tra cooperazione, cioè investimento militare, e missione militare; dall’invasione di campo dello spazio umanitario da parte dei militari agli errori della diplomazia internazionale, le cui logiche sono spesso governate da «interessi di bottega e consorterie», piuttosto che dall’interesse per il futuro degli afgani. Per finire con i giudizi polemici sui «belli e impossibili» di Emergency, responsabili di, scrive Giorndana, «eccessiva considerazione di sé» e di operare «fuori dal sistema sanitario nazionale», che invece andrebbe rafforzato.
Giudizi polemici che nascono, come lo stesso autore sottolinea, da «una vera e propria ossessione» per la popolazione afghana. Da questa seconda tensione, volta a superare la distanza che corre tra «noi e loro», nascono efficaci spaccati sociologici, tanto divertenti quanto desolanti e istruttivi, sull’autoreferenzialità della comunità internazionale, abituata a trincerarsi nei «luoghi della libertà virtuale», quei bar e locali per occidentali che rimangono «l’ultimo rifugio per fingere di essere degli uomini liberi». Luoghi in cui si riflette e si amplifica l’incapacità di riconoscere la realtà afgana attuale: «un melmoso acquitrino, delle sabbie mobili dalle quali uscire è difficile e avanzare ancora più complesso».
In una situazione del genere, suggerisce Giordana, l’unica soluzione praticabile passa per un radicale mutamento di prospettiva: se «l’unico in grado di salvarci sarà un afghano», bisognerà cominciare a chiedersi «non cosa dobbiamo-vogliamo fare noi, ma cosa vorrebbero fare gli afghani». Per far questo, però, occorre cominciare a rispettare gli afgani. Accettando anche il fatto che rimangano «altro, lontano da noi, anche quando cerchiamo di raccontarli con le migliori intenzioni».
E al popolo afghano, «attore non protagonista» di una storia complicata e sanguinosa, è dedicato anche un altro libro recente, Shahid. Analisi del terrorismo suicida in Afghanistan di Claudio Bertolotti. Un libro interessante, prima ancora per l’analisi del contesto sociale, politico, storico, religioso ed economico in cui matura la scelta del martirio, per alcuni giudizi dell’autore, un analista Nato che ha vissuto in Afghanistan, già responsabile per conto della missione Isaf della sicurezza della «Kabul Multinational Brigade» e del «Regional Command Capital», di cui ha diretto la «Counter-intelligence». Bertolotti infatti sottolinea alcuni elementi, di cui spesso ci dimentichiamo: quella «afghana è una guerra a tutti gli effetti», anche se «non si può chiamare guerra, per ragioni di opportunità politica»; i talebani non sono «solamente un coacervo di ribelli violenti e ignoranti, ma piuttosto ‘resistenti’ armati, animati da intenti ben definiti»; «i gruppi di opposizione in Afghanistan sono diversi, spesso anche in antagonismo tra loro, e differiscono per composizione, tattiche, modus operandi e politica, per quanto la lotta contro gli stranieri e il governo di Kabul rappresenti un comune obiettivo»; «lo sforzo militare da solo è fallimentare», ed è perciò necessario avviare «una politica di sviluppo sociale, infrastrutturale ed economico del Paese», insieme a un percorso politico di riconciliazione. Soprattutto, sostiene Bertolotti, per uscire dal pantano afghano bisogna cominciare a capire che «la legittimità non può essere prerogativa di un’unica parte», perché troppo spesso «il concetto di ‘giusto’ – mascherando l”utile’ – ha portato a gravi efferatezze». Gli afghani ne sanno qualcosa.

LIBRI EMANUELE GIORDANA, DIARIO DA KABUL, OBARRAO, PP. 120, EURO 10,
CLAUDIO BERTOLOTTI, SHAHID. ANALISI DEL TERRORISMO SUICIDA IN AFGHANISTAN, FRANCO ANGELI, PP. 160, EURO 19

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