Con una vergognosa sentenza, qualche giorno fa un tribunale federale americano ha bocciato una causa intentata da cinque vittime delle cosiddette “deportazioni straordinarie” contro il governo americano e una compagnia aerea privata. Il verdetto rappresenta una chiara vittoria per il presidente Obama, il quale, nonostante i proclami durante la campagna elettorale del 2008, aveva da subito seguito le orme del suo predecessore nell'ambito della sicurezza nazionale. A prevalere è stato il “privilegio” del segreto di Stato, invocato per bloccare sul nascere qualsiasi iniziativa legale nei confronti dei metodi illegali adottati nella lotta al terrorismo a partire dall'11 settembre 2001.

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Sequestrano, torturano, si assolvono

 

 

 

 

 

Con una vergognosa sentenza, qualche giorno fa un tribunale federale americano ha bocciato una causa intentata da cinque vittime delle cosiddette “deportazioni straordinarie” contro il governo americano e una compagnia aerea privata. Il verdetto rappresenta una chiara vittoria per il presidente Obama, il quale, nonostante i proclami durante la campagna elettorale del 2008, aveva da subito seguito le orme del suo predecessore nell’ambito della sicurezza nazionale. A prevalere è stato il “privilegio” del segreto di Stato, invocato per bloccare sul nascere qualsiasi iniziativa legale nei confronti dei metodi illegali adottati nella lotta al terrorismo a partire dall’11 settembre 2001.

 

 

 

 

 

Con una vergognosa sentenza, qualche giorno fa un tribunale federale americano ha bocciato una causa intentata da cinque vittime delle cosiddette “deportazioni straordinarie” contro il governo americano e una compagnia aerea privata. Il verdetto rappresenta una chiara vittoria per il presidente Obama, il quale, nonostante i proclami durante la campagna elettorale del 2008, aveva da subito seguito le orme del suo predecessore nell’ambito della sicurezza nazionale. A prevalere è stato il “privilegio” del segreto di Stato, invocato per bloccare sul nascere qualsiasi iniziativa legale nei confronti dei metodi illegali adottati nella lotta al terrorismo a partire dall’11 settembre 2001.

La controversia legata alle “extraordinary renditions” dirette dalla CIA era iniziata nel maggio del 2007, quando l’American Civil Liberties Union (ACLU) aveva presentato un esposto per conto del cittadino etiope legalmente residente in Gran Bretagna, Binyam Mohamed, e di altri quattro presunti terroristi, tra cui il marocchino naturalizzato italiano Abou Elkassim Britel. Tutti e cinque, tra il 2001 e il 2003, erano finiti nella rete dei servizi segreti americani e condotti illegalmente in carceri di paesi come Marocco, Egitto e Afghanistan, dove avrebbero subito ripetute torture durante gli interrogatori.

La denuncia era rivolta in particolare alla compagnia privata di trasporto Jeppesen Dataplan, appaltatrice del Pentagono e consociata della corporation Boeing, accusata di aver fornito supporto logistico al personale della CIA occupandosi dei voli intercontinentali che trasportavano i sospettati di terrorismo. Che i vertici della Jeppesen fossero a conoscenza dello scopo dei “voli della tortura” era stato rivelato, tra l’altro, da un articolo del New Yorker, dove si rendeva conto di una riunione interna alla società durante la quale un dirigente sosteneva candidamente: “Noi ci occupiamo di tutte le deportazioni straordinarie, sapete, i voli della tortura. Perché, ammettiamolo, alcuni dei voli hanno questo scopo”.

Pur non essendo chiamata in causa dall’azione legale dell’ACLU, l’amministrazione Bush nel 2007 era immediatamente intervenuta, sostenendo che il processo doveva essere impedito per non mettere in pericolo la sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Nel febbraio del 2008 la richiesta dell’allora presidente americano venne accolta. L’ACLU presentò tuttavia ricorso e in attesa della nuova sentenza un nuovo inquilino si era insediato alla Casa Bianca.

Suscitando la sorpresa di quanti si attendevano uno stop alle aberrazioni del post-11 settembre, il nuovo Ministro della Giustizia (Attorney General) nominato da Obama, Eric H. Holder, assunse la medesima posizione dell’amministrazione Bush nel caso “Mohamed contro Jeppesen Dataplan, Inc.”. Il caso, cioè, andava liquidato sulla base del segreto di Stato. Nell’aprile del 2009 i tre giudici della Corte federale d’Appello del Nono Circuito di San Francisco si espressero però contro il governo americano. Secondo il giudice Michael D. Hawkins la dottrina del segreto di Stato in questo procedimento non aveva “alcun fondamento logico”.

Sotto le pressioni dell’establishment militare e dei servizi di sicurezza, preoccupati per la possibile rivelazione dei legami tra agenzie governative, intelligence di paesi stranieri e vertici di alcune corporations legate al Dipartimento della Difesa, che hanno fatto affari partecipando a programmi illegali di tortura, l’amministrazione Obama chiese un nuovo parere di tutti gli undici giudici (“en banc”) che compongono il Tribunale d’Appello di San Francisco. Il risultato è stato alla fine il recentissimo verdetto, ottenuto con una risicata maggioranza di sei a cinque, che ha annullato la sentenza precedente del giudice Hawkins.

Secondo il giudice Raymond C. Fisher, autore della sentenza, il procedimento ha posto un “doloroso conflitto tra i diritti umani e la sicurezza nazionale”. La decisione della maggioranza dei giudici ha stabilito che il caso in questione presenta una rara circostanza nella quale la “necessità del governo di proteggere segreti di Stato va al di là del diritto degli attori di ottenere udienza in un’aula di tribunale”.

Se il ricorso al segreto di Stato non rappresenta certo una novità per i governi americani, in passato esso era stato invocato per lo più al fine di impedire nel corso di un processo di accedere a singoli documenti o prove specifiche che potevano teoricamente mettere a repentaglio la sicurezza nazionale. Con le ultime due amministrazioni, invece, il segreto di Stato è diventato il pretesto per sopprimere interi procedimenti legali, con il risultato che il potere esecutivo rende impossibile a quello giudiziario di esprimersi sulle proprie responsabilità e i propri crimini.

Il colpo di spugna sulle responsabilità per le “extraordinary renditions” volute dall’amministrazione Obama e concesso da una corte considerata tra le più progressiste degli Stati Uniti – il giudice Fisher è un ex dipendente del Dipartimento di Giustizia, nominato da Bill Clinton nel 1999 – rivela chiaramente il più o meno aperto consenso di tutto il sistema americano alla virata profondamente anti-democratica che ha segnato l’ultimo decennio dall’altra parte dell’oceano.

Sparite in fretta le illusioni del cambiamento, Obama e il suo staff hanno presto fatto capire che i responsabili degli eccessi della lotta al terrorismo non avrebbero dovuto rispondere alla giustizia, né i metodi autoritari di chi li ha preceduti alla Casa Bianca sarebbero stati messi in discussione, se non tramite trascurabili provvedimenti di facciata. Sotto l’autorità del presidente democratico le deportazioni illegali sono proseguite, così come gli assassini mirati in paesi esteri di sospettati di terrorismo senza alcun fondamento legale e, di contro, sono stati impediti i ricorsi dei detenuti in Afghanistan senza processo.

Di fronte alla sentenza, l’ACLU ha dichiarato di volersi appellare ora alla Corte Suprema degli Stati Uniti, la quale potrebbe così tornare ad esprimersi sui limiti del segreto di Stato dopo oltre mezzo secolo. La composizione della Corte, guidata dall’ultraconservatore John G. Roberts, non permette tuttavia di sperare in un rovesciamento del verdetto della Corte federale californiana.

I precedenti del tribunale costituzionale americano negli ultimi anni minacciano piuttosto un ulteriore consolidamento dei poteri dell’esecutivo in materia di sicurezza nazionale ed una nuova stretta autoritaria che già rappresentano l’eredità più pesante degli attacchi dell’11 settembre.

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