Dal punto di vista dei rom, il processo di unificazione europea ha di sicuro aperto delle possibilità di comunicazione nella comunità finora inesistenti e ha dato la possibilità di reclamare i propri diritti in modo più efficace e legittimo. Ma non ha modificato la configurazione di base della persecuzione, o addirittura può aver dato ad essa una nuova dimensione. Si tratta di una storia affascinante: quello che era ampiamente invisibile è diventato visibile e un’intera parte della storia d’Europa diventa comprensibile.
Dal punto di vista dei rom, il processo di unificazione europea ha di sicuro aperto delle possibilità di comunicazione nella comunità finora inesistenti e ha dato la possibilità di reclamare i propri diritti in modo più efficace e legittimo. Ma non ha modificato la configurazione di base della persecuzione, o addirittura può aver dato ad essa una nuova dimensione. Si tratta di una storia affascinante: quello che era ampiamente invisibile è diventato visibile e un’intera parte della storia d’Europa diventa comprensibile.
Ed è una questione vitale per il futuro dell’Europa: essa non può essere costruita sull’esclusione, non è un Impero. Ufficialmente, presenta se stessa come uno spazio per la realizzazione dei diritti democratici e del benessere comune delle sue popolazioni. In pratica, conquisterà legittimità nelle menti e nei cuori dei cittadini (una cosa più difficile di quanto immaginato all’inizio) soltanto se comporterà un avanzamento verso istituzioni più democratiche e una cultura di maggiore – e non di minore – solidarietà. Sotto questo punto di vista, la persecuzione dei rom in Europa, trasmettendosi da un Paese all’altro in un processo di emulazione negativa come nel passato, non è un problema che riguarda ogni paese separatamente, ma è un problema “comune”, un problema “comunitario”.
Etienne Balibar Affrontandolo in questo modo – e lavorando contro le proprie inclinazioni – gli europei eliminerebbero non solo una fonte di conflitti interni e di violenza che può diventare insopportabile, ma costruirebbero una comune cittadinanza. Inoltre reclamando i loro diritti, elevando il discorso dal livello culturale a quello civile, trovando gli interlocutori istituzionali e gli alleati di cui hanno bisogno tra la popolazione, i rom di tutta Europa conquisterebbero un’integrazione che ci riguarda tutti, collettivamente. Non essendo un esperto di storia e sociologia rom, ma in quanto cittadino europeo e filosofo che ha lavorato su altri aspetti dell’esclusione e sul loro impatto sullo sviluppo della democrazia, vorrei affrontare le tre principali questioni in discussione.
La prima riguarda l’esclusione e la cittadinanza e la loro trasformazione a livello paneuropeo. I rom sono privi di alcuni diritti di base in molti paesi europei e nello spazio europeo, malgrado il fatto che siano cittadini europei, essendo di pieno diritto cittadini degli stati membri. Questi diritti di base includono il diritto di circolazione, di residenza, di lavoro, il diritto alla scuola, alla salute e alla cultura. I rom sono costretti a risiedere in determinate aree, dalle quali del resto possono anche venire arbitrariamente espulsi. Sono definiti o come “nomadi” o come cittadini che provengono da determinati paesi. Sono a priori considerati come delinquenti o come una popolazione pericolosa. Non vengono mai ammessi o sono ampiamente sottorappresentati nella maggior parte delle professioni, sia manuali che intellettuali (con tassi di disoccupazione che toccano i massimi). È inutile dire che questo riguarda anche gli impieghi pubblici. Questo fenomeno è illegale o legale, con la scusa di norme e di accordi interstatali che riguardano l’igiene, la previdenza sociale, le politiche per l’occupazione e le norme culturali. Hanno luogo su uno sfondo di una persistente estrema violenza “popolare”, che è alimentata anche da gruppi neofascisti e da bande criminali, solo verbalmente condannati da molti stati membri dell’Unione europea. Solo i più vergognosi pogrom diventano una notizia per la stampa nazionale o internazionale.
La costruzione dell’Ue ha avuto degli effetti estremamente contraddittori. Ha prodotto una categorizzazione dei rom a livello europeo, dal momento che per la Ue sono stati considerati un “problema” nel loro stesso diritto a farne parte. Questo è uno scalino preliminare nella nuova razzializzazione dei rom. Li mette nella stessa categoria dei “migranti” di origine extracomunitaria, in un quadro generale che ho definito come l’emergente apartheid europeo, il lato oscuro dell’emergenza di una «cittadinanza europea». La differenza proviene dal fatto che i “migranti” (e i discendenti di migranti) sono visti come un altro esterno, mentre gli tzigani come un altro interno. Ciò d’altronde rafforza il vecchio stereotipo del nemico interno, che ha effetti sanguinosi.
Malgrado gli enormi cambiamenti storici e sociali – specialmente dopo la seconda guerra mondiale e la fine della guerra fredda – che hanno portato l’Europa molto lontana dal proprio passato, questo fenomeno è testimone di una traccia durevole delle persecuzioni nella storia europea. È inevitabile la comparazione con il caso, di cui si è parlato molto di più, della persecuzione di un “gruppo razziale” nella storia europea, cioè gli ebrei. I due “gruppi paria” sono stati il bersaglio congiunto del genocidio nazista (come altre popolazioni “devianti”). Rappresentano casi completamente diversi di traiettoria religiosa ed economica, ma – è importante sottolinearlo – entrambi hanno svolto un ruolo centrale nello stabilire delle connessioni tra diverse culture europee (specie nel campo artistico, nel caso degli tzigani) incarnando l’elemento “cosmopolita” senza il quale le culture “nazionali” restano isolate e sterili.
Questo mi porta a prendere in considerazione una seconda questione, che riguarda più specificamente le tendenze di razzializzazione in Europa. Alcuni anni fa mi ero chiesto se bisognasse ammettere che esiste un razzismo o neo-razzismo “europeo” che avrebbe avuto, rispetto alla costruzione “sopra-nazionale”, la stessa relazione di complementarità ed eccesso che il razzismo tradizionale (antisemitismo, razzismo coloniale, ecc) aveva con lo stato-nazione e le classiche costruzioni imperialiste. Bisogna essere molto prudenti a proporre questo tipo di ipotesi. Nondimeno, ci sono dei fenomeni inquietanti che possono dare credito a questa ipotesi, ponendo i rom nella scomoda posizione di caso test. In conclusione, possiamo dire che l’unificazione dell’Europa ha reso la razzializzazione del “problema tsigano” più visibile, perché mostra l’evidente contraddizione con la tendenza generale e ufficiale verso il superamento dei pregiudizi etnici e nazionali sulla quale è costruita la “nuova Europa”. Da questo punto di vista, ci sono almeno tre fenomeni che mi paiono rilevanti:
1. La tendenza delle nazioni europee a proiettare sui rom i pregiudizi verso altre nazioni. Per esempio, la stampa francese è più attenta a riferire dei pogrom che hanno luogo in Italia o in Ungheria, o delle discriminazoni in Romania, ma resta quasi silenziosa sul modo in cui i comuni in Francia respingono i “nomadi” dal loro territorio, o sul modo in cui la polizia di frontiera francese espelle cittadini rumeni e bulgari per alimentare le statistiche ufficiali, pur sapendo benissimo che, in quanto cittadini europei, essi torneranno al più presto.
2. Arriviamo al fenomeno della costruzione del capro espiatorio e, più precisamente, al modo in cui le “nazioni” europee si considerano ufficialmente l’un l’altra come membri di una stessa comunità. Dopo aver superato le antiche ostilità, esse restano nei fatti piene di mutuo risentimento e sospetto reciproco – cosa che, fino ad un certo punto, dipende dal fatto che la costruzione europea è rimasta in mezzo al guado. Questo risentimento e sospetto reciproco tende a venire proiettato verso gruppi “devianti”. I rom sono come una nazione in eccesso in Europa, che si distingue per l’odio che suscita non solo perché travalica i confini ma anche perché incarna l’archetipo delle popolazioni senza stato, che fanno resistenza alle norme di territorializzazione e di normalizzazione culturale (per ironia della sorte, sotto molti aspetti, questa singolarità è essa stessa frutto delle persecuzioni).
3. Questo problema, come sappiamo, diventa eccezionalmente acuto quando vengono prese in considerazione le relazioni tra Europa occidentale ed Europa dell’est. Il fatto che i regimi di tipo sovietico in Europa dell’est durante la guerra fredda, in paesi che hanno anche un’importante popolazione rom, avessero combinato una politica coercitiva e normativa con programmi di integrazione economica, ha comportato la definizione di “protégés del socialismo” in paesi dove (per quanto tempo ancora?) la maggioranza della popolazione vede l’ammissione alla Ue come la strada più rapida verso la liberalizzazione economica e sociale. Nell’altra metà del continente, i paesi occidentali e la loro opinione pubblica li percepiscono come la perfetta illustrazione della povertà e della deregulation con le quali l’Ue sfida i vecchi membri. In entrambi i casi, sono rigettati e visti più come “orientali” che come veramente europei.
Se la relegazione dei rom nella condizione di comunità senza stato prosegue (de facto più che de jure: vivono, certo, sotto la giurisdizione degli stati, ma sono visti sia come inadatti che ostili ad entrare nella costruzione di uno stato moderno), cosa che ci riporta all’origine della loro discriminazione, essa rivela al tempo stesso i limiti della costruzione della sfera pubblica in Europa. Essa può essere paragonata a uno statalismo senza stato. Questa situazione poco chiara, combinata con altri fattori, tende ad esacerbare varie forme di razzismo popolare, in particolare sotto la forma dell’ossessione della sicurezza. Dall’altro lato, ha portato alla creazione di una piuttosto densa rete di istituzioni e organizzazioni che hanno a vedere con la “questione rom” a livello europeo. Alcune di queste organizzazioni ed iniziative governative possono favorire lo sviluppo di una coscienza autonoma e di una pratica civile nella comunità rom, mentre altre tendono a ridurli allo stato di un gruppo sotto controllo, protetto e piazzato sotto sorveglianza. Questo dilemma, secondo me, porta a prendere in considerazione un altro problema cruciale, che riguarda le vie dell’emancipazione proposte alle popolazioni rom in Europa. Parlando da un punto di vista astratto, ci sono due strade, come in altri casi simili. Una può essere definita “maggioritaria” e comporta la richiesta della fine dell’ “eccezione”, il riconoscimento dei diritti di base che, di principio, appartengono ad ogni cittadino. L’altra può essere definita “minoritaria” e si basa su un crescente senso di identità e di solidarietà tra le popolazioni rom, attraverso i confini nazionali, che porta verso una maggiore autonomia culturale e, di conseguenza, verso una maggiore visibilità come gruppo “quasi nazionale” che lotta contro l’esclusione all’interno di un’Europa multi-nazionale.
La prima strada dipende soprattutto dai passi avanti più generali sui diritti umani e da un ritorno a politiche sociali che riescano ad arginare la corrente neo-liberista, mentre la seconda dipende dalla capacità di utilizzare il discorso e le istituzioni dell’Unione europea affinché i rom arrivino a costruirsi una voce autonoma. Nessuna delle due strade è facile, né probabilmente sufficiente. Sarà responsabilità dei rom stessi articolare una combinazione efficace. Ma è anche nostra responsabilità – e nostro interesse – in quanto democratici europei, aiutarli in questo processo, lottando contro il risorgere del razzismo in mezzo a noi, inventando un’Unione migliore.
* Questo testo è una rielaborazione, per gentile concessione di Etienne Balibar, dell’introduzione al volume «Romani Politics in Contemporary Europe» (Palgrave ed. dicembre 2009), una raccolta di saggi sulla questione dei rom e l’Europa a cura di Nando Sigona e Nidhi Trehan. La traduzione è stata curata da Anna Maria Merlo
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