Pensiero italiano. Quel milieu cresciuto tra ’68 e ’89

Che cosa significa il successo editoriale, accademico e politico della filosofia italiana negli Stati uniti dopo un ventennio dominato dal post-strutturalismo francese. Ma esiste davvero un tratto comune che lega in Italia pensatori e pensatrici assai diversi fra loro, e se c’è da quali eventi origina?

Che cosa significa il successo editoriale, accademico e politico della filosofia italiana negli Stati uniti dopo un ventennio dominato dal post-strutturalismo francese. Ma esiste davvero un tratto comune che lega in Italia pensatori e pensatrici assai diversi fra loro, e se c’è da quali eventi origina?

Nel corso degli ultimi dieci anni il pensiero italiano è andato assumendo un’importanza sempre maggiore nell’accademia anglo-americana. Da questioni vaste come la bioetica e la bioingegneria, fino all’eutanasia, alla globalizzazione, alla riflessione sul genere, alla guerra al terrore, i lavori provenienti dall’Italia hanno contribuito in modo significativo, forse anche decisivo, a definire i termini e le condizioni del dibattito. È possibile che oggi, negli Stati Uniti, nessun pensiero contemporaneo riscuota un successo maggiore di quello italiano.
Se vent’anni di post-modernismo e post-strutturalismo sono stati in larga misura il risultato dell’esportazione negli Stati Uniti di autori francesi come Derrida, Lacan, Deleuze, Foucault, oggi l’esportazione di una serie di filosofi italiani sta delineando un dispositivo teorico che va sotto vari nomi: post-marxismo, post-umano o, più spesso, biopolitica. Tuttavia, il fatto che il pensiero italiano goda di un successo così enorme negli Stati Uniti e altrove solleva un interrogativo serio, un interrogativo che di recente mi è stato rivolto polemicamente da un importante filosofo italiano. Esiste davvero un pensiero italiano contemporaneo? E se sì, cosa hanno in comune i suoi esponenti?
Per rispondere, potrebbe essere utile ricordare alcuni dettagli sul modo in cui è stato accolto recentemente il pensiero italiano nell’accademia americana. All’indomani della fine del post-moderno – salutata da molti osservatori americani come la fine dell’uso e abuso della filosofia da parte di tantissimi critici letterari – nell’arco di tre anni sono apparsi due saggi in inglese: Homo Sacer di Giorgio Agamben e Impero di Michael Hardt e Antonio Negri. Riempiendo il vuoto lasciato dalla dipartita di quella che negli Stati Uniti veniva chiamata «theory», questi lavori hanno formulato una serie di audaci affermazioni teoriche sul rapporto tra potere politico e vita individuale (Agamben), e tra globalizzazione e vita collettiva (Hardt e Negri), affermazioni che in modo inquietante, a volte quasi profetico, hanno affrontato alcune tra le questioni più pressanti rispetto all’attuale stato dei fatti.
All’incirca nello stesso periodo è apparsa anche una serie di importanti scritti del femminismo italiano. Le opere di Adriana Cavarero e Rosi Braidotti, tra le altre, hanno influenzato profondamente un’intera generazione di teorici americani in ambiti quali i gender studies, la filosofia politica, il diritto. Guardando indietro, non c’è il rischio di sovrastimare l’influenza di tutte queste figure per spiegare il successo intellettuale del pensiero italiano oggi. Ma certamente è diventato possibile per altre voci essere ascoltate: Paolo Virno e, più recentemente, tra gli altri, Franco Berardi, Roberto Esposito, Maurizio Lazzarato.
Ma per riprendere la questione sul tappeto: cosa hanno in comune autori apparentemente così diversi come Agamben e Negri, Berardi ed Esposito, Braidotti e Bodei, o Cavarero e Virno al di là del semplice fatto di scrivere in italiano? Oltre ad una lingua comune esiste, ad esempio, una comune tradizione filosofica italiana di cui tutti facciano parte? Alcuni, e in particolare Mario Perniola, risponderebbero di sì, una tradizione rintracciabile negli elementi – ripetizione, trasmissione, mescolamento, corpo – che insieme hanno forgiato una cultura filosofica italiana nel corso degli ultimi trecento anni. Deleuze e Guattari invece avrebbero risposto no, sostenendo che in Italia storicamente «è mancato un milieu» per la filosofia. Secondo loro, la ragione di questa mancanza può essere rintracciata nella vicinanza dell’Italia alla Santa Sede, che avrebbe continuamente fatto abortire la filosofia in tutta la penisola, riducendo il pensiero italiano a mera retorica, ombra della filosofia, e consentendo solo occasionalmente a qualche «cometa» di illuminare brevemente il firmamento filosofico.
E se invece il pensiero italiano oggi godesse davvero di un milieu? Quale «evento», o quali «eventi», nel recente passato potrebbero aver dato forma ad un milieu per l’emergere del «pensiero italiano»? E quali sarebbero le caratteristiche di questo milieu?
Indubitabilmente, il decennio del lungo Sessantotto italiano ha giocato un ruolo decisivo. I voti sull’aborto, l’emergere della controcultura e dei movimenti studentesco e femminista, e i cambiamenti nel lavoro e nella produzione hanno trasformato profondamente lo spazio in cui la politica, così come la filosofia, sono state praticate. Una delle caratteristiche centrali del Sessantotto italiano era proprio l’enfasi sulla politica come filosofia e sulla filosofia come una forma (tra altre) della politica. Questo risulta dal ruolo che il ’68 e il ’77 hanno assegnato alla militanza politica; dalla crescente importanza data alle questioni della soggettivizzazione; e, più ampiamente, dalla nascita di nuove forme di vita sociale e politica separate da quelle che avevano dominato in precedenza.
Tuttavia il lungo Sessantotto da solo non sarebbe bastato. Soltanto nel 1989, con la caduta del Muro di Berlino, politica e filosofia hanno davvero cominciato, per usare il linguaggio di Deleuze e Guattari, a passare intensamente l’una nell’altra. Sebbene possa sembrare meno chiaro a coloro che scrivono in Italia, visto dall’esterno il 1989 è stato vissuto come un trauma più in Italia che nel resto d’Europa. Il risultato ha costretto una serie di pensatori a riesaminare le categorie politiche e filosofiche fondamentali che avevano puntellato decenni, se non secoli, di pensiero: quale significato avrebbe avuto la fine di una certa forma di vita comune per la politica, per la filosofia, per la cultura?
Questa messa in questione del precedente modo di intendere il comune ha avuto l’effetto di riterritorializzare la politica e la filosofia sulla base di termini nuovi e nuove problematiche, una delle quali sarà «vita», in senso lato. Solo quando il Sessantotto viene considerato il motore della deterritorializzazione del comune nella teoria politica e nella filosofia, e l’Ottantanove un punto di svolta verso la sua riterritorializzazione così come viene nuovamente mappata (tra le altre cose) dalla teoria biopolitica, nasce qualcosa di simile a un milieu per il pensiero contemporaneo italiano.
Questo non vuol dire che gli esponenti del pensiero italiano condividano la stessa visione del comune, e nemmeno che la celebrino. Chiaramente non lo fanno. Tuttavia la centralità del comune pone una serie di questioni sul pensiero italiano e sulla vita pubblica italiana oggi. Cosa significa essere o avere in comune nel 2010? Quali sono gli effetti del mettere in questione il peso della vita condivisa, e qual è il futuro possibile per il comune? In che modo le singolarità potrebbero essere pensate insieme, così da creare nuove forme di vita, e quali tipi di coabitazioni o contaminazioni potrebbero rafforzare queste nuove forme di vita? Queste sono domande che il pensiero italiano, in tutta la sua diversità, ha collocato in primo piano nella teoria contemporanea, e che a loro volta sollevano interrogativi fondamentali sulla natura della relazionalità e di una politica che vorrebbe rafforzare le relazioni ed estenderle al fine di creare ulteriore relazionalità. E’ questa la forza della discussione di Hardt e Negri, verso la fine di Commonwealth, della capacità di amare, sebbene si possa ben immaginarne altre, come la capacità di giocare, di prestare attenzione e anche di provare compassione.
Tuttavia la relazionalità implicita in queste nuove forme di vita condivisa non porta solo a capacità maggiori e più positive di relazionalità tra singolarità. Né la deterritorializzazione del comune come biopolitica, né il post-umano, e nemmeno l’insurrezione fanno sparire lo spettro del potere; così, con una maggiore capacità da una parte, interviene la possibilità di forme di potere più intense e invasive dall’altra. L’interrogativo diventa dunque: come le nuove forme del comune che si delineano oggi – singolarità condivise, neuroni specchio, impersonalità – vengono anch’esse riterritorializzate e ricontenute, e da parte di chi? È possibile che forme più intense di relazionalità possano segnalare un ritorno a quegli stessi termini che le precedenti critiche del comune avevano tentato di disvelare? Da una parte, il recente successo di social networks come facebook suggerisce che nuove forme di relazioni virtuali cui partecipano grandi numeri di «amici» non solo siano possibili, ma implichino un’esposizione sempre maggiore agli altri. D’altra parte, tali scambi continuano a basarsi sull’idea che il mio corpo e le mie opinioni appartengano a me: indimenticabile la definizione del Comité Invisible, secondo cui trattiamo «il nostro Sé come un noioso box office», usando qualunque protesi sia a portata di mano «per aggrapparci a un Io».
In un simile scenario neoliberista, la circolazione di informazioni, di merci, di persone, di persone come merci è interpretata come il ritorno a un modo comune di essere-insieme. È un film che abbiamo già visto infinite volte: la reinscrizione del comune in contesti meno aperti all’affettività che si basano sulla confluenza della connettività con modalità più relazione più aperte.
Questi interrogativi, insieme ad altri, saranno alla base di un convegno di due giorni, sponsorizzato dalla rivista diacritics, che si terrà nel campus della Cornell University il 24 e 25 settembre 2010. Il convegno, dal titolo «Commonalities: Theorizing the Common in Italian Thought», vedrà riunite una serie di voci italiane non solo per pensare insieme la relazione tra l’Italia e il comune, ma anche per considerare le forme emergenti del comune e la vita comune oggi, e per considerare l’efficacia dello stesso termine «comune» per una (bio)politica progressista. L’evento – il primo del suo genere a memoria recente negli Stati Uniti – è un’occasione per registrare lo stato del pensiero italiano oggi. Visto dall’altra sponda dell’Atlantico, nessun altro pensiero contemporaneo appare oggi più adatto di quello italiano a offrire quella che Foucault chiamava una ontologia del presente. Come minimo, con buona pace del mio perplesso filosofo italiano, il successo editoriale e intellettuale del pensiero italiano merita uno sguardo più ravvicinato.
Traduzione di Isa Melampo

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