Lo scrittore e il suo nuovo libro: “Abbiamo un corpo sociale intossicato, dagli intrecci tra mafia e politica, dai Servizi deviati, eppure credo che sia ancora possibile risollevarsi” “Solo ricostruendo la nostra memoria recente possiamo sperare di dare delle risposte diverse” “Altrove figure come quella di Dell’Utri sarebbero state allontanate dalla vita pubblica”
Lo scrittore e il suo nuovo libro: “Abbiamo un corpo sociale intossicato, dagli intrecci tra mafia e politica, dai Servizi deviati, eppure credo che sia ancora possibile risollevarsi” “Solo ricostruendo la nostra memoria recente possiamo sperare di dare delle risposte diverse” “Altrove figure come quella di Dell’Utri sarebbero state allontanate dalla vita pubblica” L´ultima Italia di Carlo Lucarelli, I veleni del Crimine. Storie di mafia, malapolitica e scheletri negli armadi che intossicano l´Italia (Einaudi, pagg. 486, euro 19,50), è una discarica sotto un cielo livido, dove i gabbiani volano bassi e una ruspa rimesta nella rumenta. È il racconto circolare – scritto sul canovaccio della serie televisiva Misteri d´Italia di Blu Notte – di un corpo sociale e politico apparentemente immemore, ma in realtà consapevolmente intossicato dalle doppie verità, dalla menzogna, dall´avidità, dal ricatto, dalla manipolazione. Dove nulla è ciò che sembra e niente riesce ad essere vero una volta per tutte. Dove non si è riusciti a mettere punto neppure alle responsabilità per i crimini di guerra nazisti. Un paesaggio abitato da figure immarcescibili, dove il trasformismo della politica è l´espressione di un patto di cittadinanza compromesso da appetiti criminali. E questo, che il tema sia la corruzione della politica e dell´impresa, o il controllo del territorio del crimine organizzato, o la morte violenta in circostanze mai chiarite di una giornalista coraggiosa come Ilaria Alpi.
Diciamolo, una lettura disperante…
«Comprendo bene la vertigine, perché l´ho provata innanzitutto io mentre ne scrivevo. Ma provo a ribaltare la conclusione. Se oggi, 2010, a oltre sessanta anni dalla nascita della Repubblica siamo ancora vivi, dobbiamo riconoscere che questo Paese ha ancora degli straordinari anticorpi. Ci tengo a dirlo perché è l´unica cosa che riesco a rispondere a quanti, scrittori e giornalisti stranieri, spesso mi chiedono. “Ma come fate a essere ancora in piedi in un Paese che per un terzo è in mano alle mafie, nel cui parlamento siedono decine di inquisiti e condannati, dove un pezzo di classe politica, a cominciare dal Presidente del Consiglio rivendica per sé un´immunità assoluta?”. Ecco, quello che io riesco a dire è che una dose così massiccia di veleno ha prodotto anticorpi che probabilmente nessuna altra democrazia moderna conosce. Penso agli eroi borghesi di cui sono piene le mie storie. E agli eroi civili che abitano le strade di Casal di Principe, di Palermo, di Reggio Calabria. Quasi sempre senza nome, almeno fino al giorno in cui non vengono ammazzati e solo allora celebrati e riconosciuti come tali».
Di uomini proposti al rango di «eroi» – e ne scrivi nel capitolo “Mafia e politica” – il nostro dibattito pubblico annovera Vittorio Mangano, il mafioso stalliere di Arcore. Senza contare il peso e la centralità nella vita pubblica del senatore Marcello Dell´Utri, condannato in primo e secondo grado per concorso esterno in associazione mafiosa e che di Mangano fu il mentore.
«Non c´è dubbio che in qualsiasi altro Paese, figure come quella di Marcello Dell´Utri, di Totò Cuffaro, o di Nicola Cosentino, al netto delle loro asserite responsabilità penali che prima o poi conosceranno un giudizio definitivo, sarebbero stati da tempo allontanati dalla vita pubblica. Sappiamo invece che Dell´Utri ha continuato a godere fino a ieri dell´ascolto pubblico anche di settori significativi dell´opposizione, che Cuffaro resta uno dei signori del consenso in Sicilia, e che Cosentino, è storia di oggi, trova protezione nella maggioranza del Parlamento a prescindere dalla discussione di merito delle vicende di cui è protagonista. Naturalmente – e lo dico per chiarezza, viste certe polemiche di questi ultimi tempi – non penso e non sostengo che non abbiano diritto di parola. Dico che in qualsiasi altro paese sarebbero quantomeno messi ai margini della vita pubblica. E sicuramente non verrebbero votati. Ma questo mi fa pensare che ciò accade non perché l´Italia sia rassegnata o cieca. Ma perché – e uso ancora la metafora clinica – un corpo sociale profondamente avvelenato come il nostro ha bisogno di tempo e coraggio per disintossicarsi. Un po´ come accade ai tossici all´ultimo stadio. Senza contare che a un tossico devi anche dare una possibilità di liberarsi della scimmia. Mentre da noi le classi politiche hanno ripreso a chiedere il consenso sul listone bloccato».
Disintossicarsi richiede coraggio. Magari cominciando a chiamare le cose con il loro nome. E invece, proprio leggendo le storie che rimetti in fila nel libro, la sensazione è che questa radicalità, anche linguistica, dalle nostre parti sia merce rara.
«Sono talmente d´accordo che posso dire che l´idea del libro è nata proprio da questa constatazione. Continuavo a chiedermi: ma perché in questo Paese fatti antichi e recenti, dalla mafia e i suoi intrecci con la politica, ai Servizi deviati, allo strapotere dei clan nel nostro Sud, fatti di cui tutti sanno e per giunta documentati, tornano ogni volta in discussione? Così ho pensato che forse quelle storie andassero raccontate di nuovo. I fatti rimessi in fila nella loro semplice essenzialità. E radicalità. Magari ricordando chi è stato e cosa ha significato il sacrificio di Libero Grassi. Cosa è stata Tangentopoli. O per quanto tempo il silenzio delle cronache e della politica ha consentito ai Casalesi di diventare quel che oggi sappiamo. Scoprendo, per altro, nel lavoro di ricerca, che almeno negli ultimi dieci anni, di questi fatti, almeno in televisione non si è più parlato. La dico con una battuta: ma che Paese è quello in cui ancora discutiamo di Erich Priebke, come se la sua storia fosse ancora in discussione, come si trattasse di un fatto di cronaca accaduto ieri? Non è un caso che il mio libro si apra con la storia del cosiddetto armadio della vergogna, quello che per decenni, in un corridoio della Procura generale militare di Roma, ha nascosto la verità sulle stragi naziste in Italia impedendo che se ne perseguissero per tempo i responsabili».
Torniamo agli anticorpi che vedi. Sai dargli un nome?
«Ne vedo tanti, e come dicevo sono eroi senza nome. Ma penso soprattutto ai ragazzi delle scuole dove sempre più spesso mi capita di andare. Questo libro è anche e soprattutto per loro. Mi ascoltano raccontare queste storie e succede regolarmente che il più intelligente si alzi e faccia una domanda terribile. “Ma se le cose stanno così, non ha ragione allora chi pensa di ribellarsi sparando?”. Ecco, io credo che quella domanda, prima che questo Paese infili una china buia, meriti una risposta non violenta. E la risposta non violenta è nella ricostruzione della nostra memoria recente. Sapere di essere avvelenati e da che cosa è il primo passo di una consapevolezza civile. È un atto di coraggio. Che mi fa dire che ne usciremo».
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