Fernando Solanas, il regista dellà«Ora dei forni», film dedicato a Che Guevara e girato clandestinamente negli anni della dittatura in Argentina, si candida alle elezioni presidenziali del 2011. Prima di partire per l’Italia, dove parteciperà al festival cinematografico di Imola, risponde alle domande dell’Unità .
Fernando Solanas, il regista dellà«Ora dei forni», film dedicato a Che Guevara e girato clandestinamente negli anni della dittatura in Argentina, si candida alle elezioni presidenziali del 2011. Prima di partire per l’Italia, dove parteciperà al festival cinematografico di Imola, risponde alle domande dell’Unità .
Signor Solanas perchè un uomo di cultura e spettacolo come lei scende in gara per la carica di capo di Stato?
«In realtà la mia è una vecchia storia di militanza culturale e politica, iniziata oltre cinquanta anni fa. Il mio cinema è sempre stato socialmente e politicamente impegnato, così come la mia vita. Ho partecipato nell’arco degli anni a diverse iniziative di costruzione sociale e politica in Argentina, con alterne fortune. Negli anni novanta fui tra i primi a denunciare il progetto neo-liberista di Menem con le sue estese e catastrofiche privatizzazioni. Per la mia attività nel 1991 fui bersaglio di un attentato. Volevano intimidirmi e costringermi ancora una volta all’esilio. Ma restai e intensificai la mia opposizione alla presidenza Menem. Nel 2002, nel pieno della tremenda crisi economica in cui i cittadini si vedevano confiscati i risparmi in banca, le aziende fallivano a ripetizione, e la disoccupazione saliva al 30%, nacque “Proyecto Sur”, un’idea politica poi evoultasi in una vera e propria forza politica nel 2007 grazie all’incorporazione del Partito socialista autentico e di movimenti legati al sindacato. L’anno scorso abbiamo mancato di poco la vittoria nelle elezioni a Buenos Aires. Siamo in crescita, ma in una situazione politica di grande confusione».
Se diventasse presidente, quali sarebbero i suoi obiettivi prioritari?
«In primo luogo la lotta alle disuguaglianze. Nonostante la ripresa seguita alla crisi economica, un terzo degli argentini vive sotto la soglia della povertà. Di questo terzo, la metà si trova in condizioni di grave indigenza. Dunque la prima urgenza è vincere la fame, che è un crimine. Ed è un crimine perché è evitabile».
In che modo?
«Prima di tutto con una forte riforma fiscale. L’Argentina conserva lo stesso meccanismo impositivo arretrato dei tempi della dittatura. Vogliamo un sistema di tassazione più europeo, progressivo. Poi bisogna recuperare i profitti straordinari che derivano dalle nostre ricchezze naturali, petrolifere e minerarie. Pensate che da noi non esiste alcun obbligo legale per il rientro in patria degli introiti realizzati con l’export. Ancora, vogliamo un’indagine seria sul debito estero accumulato negli anni della tirannia. La magistratura ha già appurato che metà del debito è frutto di speculazioni bancarie. Dobbiamo finirla con l’indebitamento permanente».
Altri obiettivi?
«È importante rimettere in piedi l’industria pubblica. Le ferrovie in primo luogo. Un Paese che si estende in lunghezza come l’Argentina ha assoluto bisogno di una buona rete ferroviaria. Stesso discorso vale per le attività navali. Passando ad altri settori, dobbiamo ricostruire il nostro sistema scolastico. Abbiamo scienziati e tecnici di qualità, ma si trovano costretti ad emigrare per trovare lavoro. Infine, puntiamo a quella che chiamo democratizzazione della democrazia. Il nostro traguardo va oltre un cambiamento di modello produttivo. Implica una trasformazione del paradigma culturale argentino che implica una rifondazione dell’etica pubblica ed una lotta serrata alla corruzione».
La presidente Kirchner partì con un sostegno vicino al 60%. Ora la sua popolarità è precipitata a livelli infimi. Che errori ha commesso?
«Essenzialmente ha continuato a muoversi lungo l’indirizzo macroeconomico di Menem. Verso il business del petrolio e delle miniere ha proseguito la stessa politica. L’Argentina è sesta nella classifica dei Paesi detentori di riserve in metalli. Grazie ai metodi di sfruttamento adottati, abbiamo danneggiato l’ambiente in maniera devastante. Oggi un tema di grande attualità nel mio paese è la proposta di legge per proteggere i ghiacciai della Cordigliera delle Ande e frenare la contaminazione delle acque potabili, che sta raggiungendo livelli impressionanti. Il movimento ecologista lotta all’insegna di una parola d’ordine significativa: l’acqua vale più dell’oro. Cos’è cambiato dopo Menem? C’è stata una maggiore apertura politico-sociale, una politica distributiva attuata però con criteri demagogici. Il governo attuale si è macchiato di gravi atti di corruzione».
Che giudizio dà su Chavez, il presidente del Venezuela?
«Per capire Chavez bisogna sapere com’era il Venezuela prima di lui. Un Paese sprofondato in condizioni disastrose, che importava perfino i pomodori. Pur ricavando somme ingenti da un patrimonio petrolifero fra i più ricchi al mondo, era privo di industrie, perché quel denaro non veniva investito. Il Paese era oppresso da un’oligarchia corrotta. Il “chavismo” nasce come risposta alla spaventosa repressione dei moti popolari nel 1991: 4000 morti. Il 75% dei media nazionali è ostile a Chavez. Si può criticarlo per i suoi atteggiamenti demagogici, ma è sbagliato definirlo un dittatore o un corrotto. Ha garantito ai concittadini diritti elementari di cui erano privi: l’acqua corrente in casa, le cure mediche, l’istruzione. Lo definirei il promotore di quello che chiamerei il livello primario di trasformazione sociale ncessario ad uscire dall’arretratezza e dall’ingiustizia. Una fase di cambiamento che abbiamo vissuto anche noi qui in Argentina».
Quando?
«All’epoca di Peron. I due Peron in Europa hanno fama di fascisti. Qui da noi il giudizio è diverso. Nel periodo in cui governavano loro, lo sciopero cessò di essere un reato. Le donne ottennero il diritto di voto. Fu legalizzato il divorzio, ed anzi fu proprio questa la causa della loro caduta, perché la Chiesa reazionaria argentina si mobilitò contro. Un altro Paese che oggi sta vivendo oggi quello che chiamo il livello primario di trasformazione sociale è il Brasile di Lula, anche se con una metodologia più politica, intelligente e aggiornata rispetto all’Argentina di molti decenni fa. Peron ai suoi tempi ebbe il coraggio di attaccare sia lo stalinismo che l’imperialismo yankee. Per questo fu attaccato da ogni lato. Oggi viviamo in un altro mondo, ma, per tornare al Venezuela, se confronti chavismo e peronismo, vedi che in comune hanno la tendenza a favorire l’affermazione dei diritti sociali. Purtroppo nel vecchio continente le vicende sudamericane vengono interpretate attraverso le stesse lenti con cui si guarda alla storia europea, e questo crea confusioni e manipolazioni. Ho vissuto molti anni in esilio in Francia. Ho potuto constatare quanto fosse ridotto sui giornali locali lo spazio dedicato all’America latina. Si parla di noi se c’è un golpe, una catastrofe, uno scandalo sessuale. Ecco perché di fronte a fenomeni complessi che riguardano la politica, la società, l’economia, l’opinione pubblica europea rimane spesso sorpresa. Una sorpresa che è frutto di impreparazione».
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