Kim Rossi Stuart (Reuters)
L’interprete di Placido: l’ho visto diverse volte, è sensibile e socievole
L’attore Kim Rossi Stuart: non si fanno solo film sui santi Renato? Ha pagato con il carcere più di altri.
Kim Rossi Stuart (Reuters)
L’interprete di Placido: l’ho visto diverse volte, è sensibile e socievole
L’attore Kim Rossi Stuart: non si fanno solo film sui santi Renato? Ha pagato con il carcere più di altri.
«Prima di scagliarsi contro una persona folle e selvaggia nel suo modo di affrontare la vita, tutti quanti dovrebbero fare un’autocritica, un’autoanalisi molto profonda. Una società basata sull’egoismo, sul profitto, sulla manipolazione degli esseri umani; come può pensare, una società del genere, di non produrre i Vallanzasca?».
Il film si intitola Vallanzasca. Gli angeli del male. È prodotto dalla Cosmoproduction di Elide Melli in associazione con la Fox, regia di Michele Placido. Prima ancora di essere finito e visto, ha già acceso polemiche. Lunedì prossimo sarà presentato alla Mostra del Cinema di Venezia. Ne parliamo con il protagonista, Kim Rossi Stuart, che interpreta il bandito milanese macchiatosi di sette omicidi.
Signor Rossi Stuart, la sua sembra la classica formula «gauchiste» anni Settanta: colpa della società.
«Mi pare inconfutabile: chi può smentire che la società sia costruita su queste basi? Finché la società non se ne renderà conto, ci saranno sempre uomini come Renato Vallanzasca».
Un assassino.
«Un attore deve cercare non di giudicare il personaggio, ma di scoprirlo, esplorarlo, farne emergere più aspetti possibile. Per me il mestiere dell’attore significa creare consapevolezza in me stesso e nello spettatore. L’idea di fare un film “pro” o “contro” qualcuno è lontana dai miei presupposti. Questo non è un film pro Vallanzasca. Racconta la vita surreale di un uomo che ha accumulato strumenti per analizzare profondamente se stesso. La frase-chiave arriva verso la fine, quando Vallanzasca dice: “Io non sono cattivo. Ho un lato oscuro molto pronunciato”».
E lei, Kim Rossi Stuart?
«Io ho una tendenza francescana nell’approccio alla vita, nel modo di relazionarmi con gli altri. E so bene che Vallanzasca ha fatto cose incondivisibili. Ma, prima di scagliarci contro di lui, dovremmo guardare dentro noi stessi».
I parenti delle vittime hanno protestato per il film. Ha parlato con loro?
«Non sono certo io che posso dire loro qualcosa. Il mio lavoro è un altro. Lungi da me l’idea di fare un film apologetico. Placido ha già detto che non si possono raccontare solo storie di santi, non si possono fare film solo su Padre Pio. Aggiungo un parere personale: non ha senso accanirsi su un uomo che ha pagato con quarant’anni di galera, come credo nessun altro in questo Paese. Un uomo che non si è mai tirato indietro, che ha affrontato la giusta pena».
Lei l’ha incontrato più volte, vero?
«Sì. La prima volta, al ristorante, con Placido. Poi siamo stati a casa di sua moglie, Antonella. Lui era convalescente da un’operazione all’anca. Oggi Vallanzasca si presenta come una persona molto socievole. Simpatica, comunicativa, sensibile. Certo, questo è solo il suo modo di presentarsi. Dietro, ha una psicologia che dire complessa è poco. Tutti noi, del resto, ci portiamo dentro tanti aspetti. Spero di essere riuscito a catturarne qualcuno e renderlo nel film».
Lei ha «studiato» Vallanzasca? E lui le ha insegnato come muoversi?
«Ci siamo visti diverse volte, abbiamo raggiunto un certo grado di confidenza. Ma non c’è persona tanto consapevole di se stessa da poter comunicare a un altro la propria gestualità. Sono cose che l’attore cerca di assimilare da sé: lo sguardo, le qualità, l’energia che ogni essere umano ha. Ho visto moltissime immagini. Se le guardi tutte insieme, come una foto-gallery, Vallanzasca cambia in modo impressionante. Sembrano tante persone diverse. Renato ha uno spiccato senso artistico, che avrebbe potuto mettere al servizio della sua vita. Invece la sua vita l’ha distrutta, passo dopo passo. Il perno della sua personalità è la tendenza all’autodistruzione».
Vallanzasca è stato anche sul set?
«Due sole volte. C’è un momento in cui il personaggio passa all’attore, che ha il diritto di completarlo con le sue intuizioni».
In «Romanzo criminale», sempre diretto da Placido, lei è il capo della banda della Magliana. Che cosa cambia rispetto a quel film?
«All’epoca ho fatto un lavoro più convenzionale. Il personaggio del Freddo è ispirato ad Abatino, che però è vivo, mentre io nel film muoio. Là ci siamo basati sul libro di De Cataldo, Abatino non l’ho mai conosciuto. Qui è diverso. Ho visto il progetto nascere, ho partecipato alla scrittura. Mi sono sentito iper-responsabilizzato, perché Vallanzasca è una persona in vita, oltre che un personaggio della cronaca».
Ed è milanese, mentre lei è romano.
«Abbiamo avuto difficoltà inenarrabili. Recitare in milanese non è stata la peggiore. Il film è un triplo salto mortale. Mi sono trovato a gettare il cuore oltre l’ostacolo. Con la “strizza”, con la giusta tensione addosso».
Conosce Milano?
«Ci venivo da ragazzo, quando passavo mesi sul Lago Maggiore. Ci sono venuto per recitare a teatro. Ma mentre Romanzo criminale era ambientato nella mia città, ha fatto emergere cose che erano in me fin da ragazzo, grazie anche al racconto di amici della Garbatella e del Testaccio che avevano conosciuto affiliati alla banda, stavolta per me era fondamentale passare più tempo possibile a Milano, respirarne l’aria, stare nei bar del Giambellino o di Lambrate. Là si trattava di aprire un file già in mio possesso, qui di costruirmene uno».
Com’è lavorare con Placido?
«Facciamo questo mestiere per motivi diversi. No, non mi chieda altro. L’importante è sapersi ascoltare. E Michele sa ascoltare».
Vallanzasca lo chiamavano il Bel René. Anche lei è considerato molto bello.
«Nel mio mestiere non è sempre un vantaggio, anzi. Quante volte sono stato scartato in quanto “troppo bello”. Il cinema italiano non è fatto per i belli. Mastroianni era l’uomo più affascinante del mondo, ma non era “un bello”. Lo era di più Gassman, che però ha avuto successo quando ha indossato una maschera: I mostri, I soliti ignoti, Brancaleone».
Quali sono i film della sua vita?
«De Sica. Pasolini, in particolare Mamma Roma. Bergman. A sedici anni, quando ero una specie di militante stanislavskiano, vivisezionavo le sue opere. È triste il pensiero che oggi film come Sussurri e grida o Sinfonia d’autunno non si produrrebbero più. Tra i film di oggi, Magnolia. Ma non ne vedo molti, forse per paura di farmi influenzare. Stimo Nanni Moretti, mi piacerebbe lavorare con lui».
E della vita pubblica italiana, cosa pensa?
«Più che il nostro microcosmo, mi interessa dove sta andando a parare l’umanità in generale. E le fondamenta di questa società sono marce. Vedo sistemi pseudodemocratici. Vedo persone ridotte in schiavitù per lo pseudobenessere di pochi. Gli uomini continuano a comportarsi come lo scorpione con la rana. Non è solo Vallanzasca, a essere portato all’autodistruzione».
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