IL RICORDO DI PIERO TERRACINA
ROMA. A-5506 aveva 15 anni quando, quella notte tra il 2 e il 3 agosto 1944 venne svegliato dal latrato dei cani poco prima di sentire le urla dei vecchi e dei bambini, mentre dormiva nella sua baracca del campo D. Piero Terracina ad Auschwitz-Birkenau era solo un numero, come le altre sette persone della sua famiglia deportate con lui dopo il rastrellamento del ghetto ebraico romano del 16 ottobre 1943, e mai tornate. A 81 anni passati, però, non ha mai perso la forza e la tenacia di ricordare e mostrare quel suo numero tatuato sul braccio sinistro come memento della vergogna dell’umanità .
IL RICORDO DI PIERO TERRACINA
ROMA. A-5506 aveva 15 anni quando, quella notte tra il 2 e il 3 agosto 1944 venne svegliato dal latrato dei cani poco prima di sentire le urla dei vecchi e dei bambini, mentre dormiva nella sua baracca del campo D. Piero Terracina ad Auschwitz-Birkenau era solo un numero, come le altre sette persone della sua famiglia deportate con lui dopo il rastrellamento del ghetto ebraico romano del 16 ottobre 1943, e mai tornate. A 81 anni passati, però, non ha mai perso la forza e la tenacia di ricordare e mostrare quel suo numero tatuato sul braccio sinistro come memento della vergogna dell’umanità .
Anche ieri è stato tra i primi ad arrivare a Campo de’ Fiori, a Roma, per scendere al fianco del popolo rom e sinti. «Un dovere», lo definisce, ma la sua presenza dà carica a tutta la piazza, energia rinnovabile pura.
«Noi, nel campo D, eravamo i condannati a morte. Dall’altra parte del filo spinato elettrificato, invece, nel campo E, a soli dieci metri dalla nostra baracca, c’era la vita. C’erano tanti bambini, in quelle famiglie dello “zigauner lager”, e voci, colori, canti, con gli strumenti musicali che si erano portati dietro». Piero Terracina racconta lucido e i suoi occhi si riempiono di tristezza ma non di lacrime.
«Poi, quella notte – la ricordo come se fosse ieri – siamo stati svegliati dal latrare dei cani e dalle urla delle Ss tedesche che impartivano ordini. Man mano che facevano uscire tutti i rom fuori dalle baracche, l’aria si riempì di urla degli adulti e pianti dei bambini. Durò un paio d’ore, presumo ci sia stata anche resistenza da parte di quelle povere famiglie: noi non potevamo vedere, sentivamo soltanto. Dopo, ci fu un grande, terribile silenzio. Aspettammo l’alba con ansia, quella notte, e alle 4 del mattino, quando c’era la sveglia nel campo, andammo subito a vedere al di là del filo spinato e con orrore ci accorgemmo che non c’era più nessuno. Vennero trucidati tutti in una notte: erano tre le 4 e le 5 mila persone. È stata una cosa agghiacciante, una di quelle cose che non si possono dimenticare mai, nemmeno per un minuto e che ti rimangono impresse davanti agli occhi per tutta la vita». Terracina si ferma qui, sorride, non c’è altro da aggiungere.
Ma poi si riprende: «Non credo che quella “soluzione finale” potrà mai più balenare nella testa di qualche razzista, però penso che il popolo romanì sia ancora in pericolo. Oggi i rom non sono più in grado nemmeno di fare i loro mestieri perché nessuno mai si è occupato e preoccupato di loro, ma sono sempre stati visti solo in una prospettiva di ordine pubblico. Per questo sono qui».
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