UN INCENDIO BRUCIA I RELITTI DELLE NAVI NAUFRAGATE. Arci e Legambiente volevano farne un museo della memoria, poi è divampato il fuoco tra i relitti dei tragici viaggi dei migranti. Anche a Cala Pisana, dove sono sepolti i loro corpi, tutto giace nell’abbandono
UN INCENDIO BRUCIA I RELITTI DELLE NAVI NAUFRAGATE. Arci e Legambiente volevano farne un museo della memoria, poi è divampato il fuoco tra i relitti dei tragici viaggi dei migranti. Anche a Cala Pisana, dove sono sepolti i loro corpi, tutto giace nell’abbandono
LAMPEDUSA (AG). A Lampedusa muore anche la Memoria, quella con la M maiuscola. Non bastava la carneficina dei migranti, ingoiati a migliaia dalle onde del Mediterraneo. Non bastava il loro dolore. Non bastava l’eco delle loro illusioni, sprofondate per sempre negli abissi del mare. Non bastavano le stragi, non bastavano i morti. Adesso, a dilaniare ulteriormente la loro memoria, ne è stato ucciso anche il ricordo.
Sopravviveva accanto alla discarica comunale, dove erano accatastate le barche con le quali tentarono di raggiungere l’Europa, rinvenute a decine in tutti questi anni. Complessivamente, erano circa 200. Adesso non ci sono più. Ne è rimasta soltanto la cenere, frutto di un gigantesco incendio che è divampato nelle scorse settimane. Ha distrutto tutto: barche, barchette, gommoni. Ma anche i brandelli di umanità che sopravvivevano dentro: vestiti, coperte, materassi, succhi di frutta, bottiglie, tazze, Corani, Bibbie. Erano le uniche testimonianze di un silenzioso massacro. Potevano diventare i cimeli del museo dell’immigrazione, da anni richiesto dalle associazioni isolane. Ma il sindaco di Lampedusa, Bernardino De Rubeis (Mpa), non ha mai voluto saperne. «È ora di allontanare da Lampedusa tutte quelle barche – aveva detto nei giorni precedenti all’incendio – Saranno prelevate da una ditta specializzata che, dopo averle trasferite fuori dall’isola, provvederà al loro smantellamento».
Guarda caso, dopo l’accaduto, sono proprio due le barche sopravvissute. A distruggere le altre, però, non è stato un regolare smaltimento, che l’amministrazione comunale avrebbe dovuto pagare, bensì un incendio, quasi certamente di natura dolosa. La giunta comunale condanna l’episodio, definendolo un «atto criminale». Ma forse, denunciano all’unisono molte associazioni dell’isola, potevano pensarci prima. Sotto accusa è l’incuria del Comune, che per anni ha lasciato marcire le barche accanto alla discarica comunale. Giacomo Sferlazzo, dell’associazione Askavusa, rincara la dose: «Abbiamo accertato che l’incendio è stato appiccato da due focolai diversi. Si tratta di un attentato alla memoria e alla salute». E aggiunge: «La giunta comunale si sta comportando con ipocrisia. Sono due anni che chiediamo di mettere in sicurezza le barche: se le avessero volute conservare, avrebbero potuto farlo molto tempo fa». «Questi sono veri e propri atti criminali – denuncia Giusi Nicolini, responsabile di Legambiente a Lampedusa – Non c’era solo legno in quella discarica, ma anche rifiuti speciali e pericolosi, ad esempio le batterie. Il vento sta facendo arrivare i fumi in paese e le polveri si stanno depositando ovunque. Il danno alla salute dei cittadini sarà enorme».
Le associazioni di Lampedusa – tra queste Legambiente, Arci e Alternativa Giovani – avevano proposto al sindaco di realizzare una sorta di museo dell’immigrazione affinché, spiega Sferlazzo, si potesse «preservare la memoria degli immigrati vittime del Mediterraneo, il cui valore è fondamentale». All’interno del museo, oltre alle barche, le associazioni avrebbero voluto esporre tutto il materiale rinvenuto nella discarica. «Abbiamo ritrovato vestiti, lettere, libri, testi sacri – afferma Sferlazzo – Con tutto questo materiale si poteva realizzare un vero e proprio centro studi, una specie di archivio con le testimonianze di chi è partito dall’Africa alla volta dell’Europa». L’amministrazione comunale, però, ha sempre latitato. Il motivo? Le associazioni lo spiegano così: «A Lampedusa nessuno vuole sentir parlare di immigrazione. È una parola diventata scomoda e fastidiosa, che allontana i turisti e non valorizza l’isola. Meno se ne parla, più le istituzioni sembrano contente».
È vero: a Lampedusa, meno si parla di immigrati, meglio è. Il fenomeno dell’immigrazione, per troppo tempo, è stato una piaga sociale che ha deviato l’attenzione delle istituzioni su problemi che i lampedusani non sentivano come propri. I pescatori si lamentavano delle norme restrittive imposte dall’Unione Europea, ma i politici parlavano di immigrazione; i residenti sbandieravano il problema dei rifiuti, ma i politici parlavano di immigrazione. Tutti i disagi, per molti anni, sono stati oscurati dagli sbarchi. E oggi che gli sbarchi sono finiti, nessuno vuol rievocare il passato. «Lampedusa è libera – ha detto trionfante, nei giorni scorsi, il ministro Maroni – Quest’anno zero sbarchi». A suscitare ancora qualche scintilla politica, restavano soltanto le barche. Così, qualcuno ha pensato di bruciarle, chiudendo la discussione una volta per tutte e archiviando il seccante capitolo immigrazione.
La stessa fine, sembra essere prescritta anche per il cimitero di Cala Pisana, a pochi passi dalla suggestiva spiaggia omonima, dove ad essere abbandonate sono le tombe, quelle dei migranti ritrovati senza vita lungo le coste dell’isola. Nessuna lapide, nessun fiore, soltanto qualche pianta rinsecchita, scheletrica. Gli immigrati sono sepolti sotto due piccoli anfratti del cimitero. Sul terriccio arido e polveroso, sono piantate croci di legno, nient’altro che due pezzi di compensato incrociati e legati con fil di ferro arrugginito. Lo spazio è ristretto, ma sotto terra ci sono almeno trenta corpi. Originariamente erano molti di più, poi i familiari o i consolati sono venuti a riprenderseli. È una specie di fossa comune, testimone della tragedia silenziosa di Lampedusa. Non una guerra, non un genocidio, non un cataclisma. Ma pur sempre uno sterminio. Meno lampante, ma ugualmente drammatico. Viene da chiudere gli occhi, oltrepassare lo strato di terra e immaginarseli lì: un groviglio di corpi ammassati, in putrefazione, uccisi dal mare che avevano tentato di attraversare. Volevano cambiare la loro vita, ma la loro vita è finita sotto terra, in un angolo sperduto di Mediterraneo, tra il mare e un sogno. Ognuno di loro ha una storia alle spalle. Oggi non interessa più a nessuno. Le loro croci avanzano nel degrado, tra zappe abbandonate, pezzi di legno e piante senza colore abbrustolite dal sole.
Il sindaco ha promesso di riqualificare l’area, ma ancora non c’è traccia di ristrutturazione. Lampedusa sembra insensibile alla memoria. Eppure c’è un uomo che non si dà per vinto e che di Lampedusa, anche se nessuno lo sa, ha fatto la storia. È Vincenzo Lombardo, per quindici anni il «becchino» del cimitero. Lui, i cadaveri vomitati dal mare li ha visti tutti. È lui ad aver dato loro l’ultima dimora, pulendoli accuratamente prima della sepoltura, pregando per loro ogni mattina, annaffiando regolarmente i loro fiori. In paese dicono che non vuole parlare con i giornalisti. Ha avuto un infarto e non se la sente di rimembrare gli orrori di una volta. Eppure, una volta incontrato, sembra tutt’altro che ostile alla conversazione. Basta pronunciare la parola «immigrati» e prorompe in un monologo serrato e palpitante. Il suo desiderio di raccontare sembra superare qualsiasi diffidenza. «Gli immigrati? Qua non gli vuole bene nessuno» esclama istantaneamente velando i suoi occhi di pietà. «Come si fa a non aiutarli, davanti a Dio siamo tutti uguali, anche se qualcuno dice che loro sono diversi. Io l’ho fatto per compassione, perché voglio portare l’anima a Dio».
Vincenzo abbassa lo sguardo, riflette. Poi dice: «Questi disgraziati attraversano il deserto, fanno centinaia di chilometri in mezzo al mare rischiando di morire… e poi, una volta arrivati qui, dopo tutta quella fatica vengono rimandati subito indietro». Per Vincenzo la realtà odierna è costituita da tratti inspiegabili. «Una volta, un ragazzo appena sbarcato mi disse che avrebbe preferito togliersi la vita, piuttosto che tornare indietro». Vincenzo fruga tra i fantasmi del passato. Manifesta una rinnovata commozione. Ma vuole raccontare: «Erano tutti in fila, sdraiati l’uno accanto all’altro. Tutti giovani, con gli occhi grandi e aperti, come se fossero ancora vivi». Ricorda ancora il primo cadavere. «Era il 1996: i carabinieri, su segnalazione di un abitante della zona, ritrovarono un corpo senza vita sulle rocce di punta Maluk. A quel tempo ero già il guardiano del cimitero e mi chiesero di occuparmi del trasporto della salma dalla scogliera al camposanto». Non si sottrasse. Giunto sul luogo, fu traumatizzato dalla visione scioccante che si stagliò davanti ai suoi occhi. Era abituato ai cadaveri, ma una cosa del genere non l’aveva mai vista. Lo ripete lui stesso: «Il corpo era in stato di decomposizione avanzato, tutto mangiato dai pesci. Me lo sono caricato in macchina per portarlo al cimitero. Non dimenticherò mai quel terribile viaggio, seppur breve. C’era un puzzo infernale, non riuscivo a respirare». Da quel giorno i corpi senza vita degli immigrati si sono susseguiti uno dietro l’altro, a ritmo frenetico. A volte due o tre insieme, altre volte a gruppi di venti. «Ne ho seppelliti più di ottanta – dice Vincenzo – Dopo il puzzo della prima volta, imparai a mettermi una foglia di mente nel naso, così coprivo l’odore dei cadaveri». Ognuno di loro rivive nei suoi occhi. Quei morti se li ricorda tutti. Ricorda lo sguardo vuoto, la pelle nera, i braccialetti che avevano al polso. Ricorda quel «bellissimo e indimenticabile viso di donna» e «quell’africano che salvai dalla camera mortuaria: fui l’unico ad accorgermi che era ancora vivo».
Vincenzo ha parlato spesso col sindaco di Lampedusa, implorandolo di valorizzare il dramma dell’immigrazione, «per evitare che certe tragedie si possano ripetere». Oggi è sconsolato: «Sai cosa mi ha detto il sindaco? «Le barche e i corpi dei migranti sono qui da troppo tempo. È ora che buttiamo via tutto». Non si è dovuto scomodare più di tanto, il sindaco. È bastato un incendio a risolvere il problema. I responsabili? Nessuna traccia.
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