“E così ci hanno ammazzato Ferdinando!”. È l’incipit del capolavoro antimilitarista di Jaroslav HaÅ¡ek, scritto tra gli anni della finis Austriae e il primo conflitto mondiale. Affresco leggero delle miserie umane, condanna della carneficina nata da un assurdo, satira delle ipocrisie tutte patria e imperatore. Censurato in Italia dal fascismo, ora torna in libreria con le illustrazioni della versione originale. Un monarca imbecille e scimmiesco, cappellani che non sanno il catechismo, ufficiali sempre ubriachi…
“E così ci hanno ammazzato Ferdinando!”. È l’incipit del capolavoro antimilitarista di Jaroslav HaÅ¡ek, scritto tra gli anni della finis Austriae e il primo conflitto mondiale. Affresco leggero delle miserie umane, condanna della carneficina nata da un assurdo, satira delle ipocrisie tutte patria e imperatore. Censurato in Italia dal fascismo, ora torna in libreria con le illustrazioni della versione originale. Un monarca imbecille e scimmiesco, cappellani che non sanno il catechismo, ufficiali sempre ubriachi…
Il bravo soldato Švejk, l´immortale creazione di Jaroslav Hašek, attraversa due momenti estremamente significativi del Novecento, la finis Austriae e la prima guerra mondiale. Il tramonto di un impero, ormai, secondo gli anatemi del popolino, governato da un monarca imbecille e scimmiesco, incapace persino di gestire i propri bisogni corporali e la carneficina frutto di un conflitto gigantesco e per molti versi assurdo. Švejk viene a sapere dell´attentato di Sarajevo dalla sua governante signora Müllerová, mentre è intento a massaggiarsi le ginocchia. «E così ci hanno ammazzato Ferdinando!» è un incipit indimenticabile. Anche perché Švejk ne approfitta subito per dire che lui, di Ferdinandi, ne conosceva due, il primo che faceva il garzone di un droghiere e il secondo che raccoglieva la cacca dei cani. E quando l´affittacamere chiarisce che si trattava dell´arciduca, quello grasso e religioso, Švejk comincia a disquisire su tutto: la macchina, la pistola, gli attentati… Nella vicenda resterà impigliato anche l´oste Palivec, figura centrale nella narrativa hašekiana: diceva merda e culo ogni due parole, ma qui, di fronte a un agente di nome Bretschneider che fa di tutto per fargli ammettere qualcosa di compromettente, si perde per aver detto che le mosche avevano riempito l´effigie dell´imperatore di cacatine e dunque lui aveva messo il ritratto in soffitta. Palivec si beccherà dodici anni di carcere, ma la cosa non sconvolge né lui né tutto sommato noi lettori: Hašek ci abitua da subito ad accettare a cuor leggero le tragedie dell´umanità e dei singoli. Non bisogna forse morire allegramente per l´imperatore e per la patria? È quello che dirà Švejk a ogni piè sospinto: nessuno è un militarista più convinto di lui, nessuno è, come lui, pronto a esaltare il fatto che una carneficina di soldati seppelliti alla bell´e meglio in un campo, invaso dal fetore della decomposizione, porterà molti benefici ai futuri raccolti.
La faccia di Švejk e i suoi occhi celesti trasudano innocenza: nella lunga serie delle vicende che lo vedono protagonista, spesso sull´orlo della fucilazione o dell´impiccagione per equivoci vari, molte volte ristretto agli arresti, sbattuto in manicomio, sospettato d´essere un simulatore o una spia russa, Švejk sarà sempre lieto di servire l´esercito e i suoi superiori e mai rinuncerà alla formula di rito in uso tra subalterni e ufficiali – «Faccio rispettosamente notare…».
Quando noi incontriamo Švejk, ormai da anni in congedo, ma pronto a correre in caserma, veniamo a sapere, lo abbiamo già visto, che alloggia presso una certa signora Müllerová e che per vivere vende cani bastardi spacciandoli per cani di razza. «Lo si fa bene», teorizzerà a un certo punto, «intontendo l´acquirente con un mare di chiacchiere». Le continue digressioni di Švejk sono dunque un´arma e valgono altrettanti depistaggi rendendo il capolavoro di Hašek una storia che contiene in realtà centinaia di microstorie. Sapremo subito che Švejk all´esercito risulta essere un «idiota notorio».
Hašek lavorò fin dal 1911 intorno a questo personaggio a più riprese, confezionando racconti e finalmente, nel ´21, il grande romanzo che rimase incompiuto (quasi mille pagine). Ora Giuseppe Dierna lo ha magnificamente tradotto per Einaudi (I Millenni) dedicandogli anche un cospicuo saggio introduttivo che dà conto della vicenda editoriale e del milieu culturale in cui l´opera di Hašek (che è un coetaneo e un concittadino di Kafka) si colloca. La precedente traduzione di Renato Poggioli risaliva agli anni Trenta, ma la pubblicazione era stata ostacolata dal fascismo e avrebbe visto la luce solo dopo la guerra, integrata poi da Bruno Meriggi. Come il suo personaggio, Hašek stava e scriveva volentieri all´osteria (tutta la guerra nei discorsi tra Švejk e un suo commilitone sembra essere una parentesi tra due birre: per questo i due si danno appuntamento a guerra finita “Al calice”, tra le sei e le sei e mezza).
Di vena facile, Hašek scriveva esattamente quello che serviva alla puntata (Le avventure uscirono a fascicoli) e avrebbe potuto continuare all´infinito, a costo di essere persino un po´ ripetitivo. I bersagli di Hašek sono da subito chiari: la grande impalcatura dell´impero multilingue gli appare ormai come una costruzione retorica, l´esercito e la guerra non sono da meno. Che senso ha mandare al fronte un supplente di matematica nella speranza che ammazzi un altro supplente di matematica, schierato con il nemico? E che senso ha per un cappellano militare benedire le truppe che vanno al massacro invocando la protezione di Dio, mentre in campo nemico avviene la stessa identica cosa? Disgustato, Hašek ha creato cappellani militari particolarmente lontani dalla religione e dediti anzi alla crapula più sfrenata. Di uno, il Feldkurat Otto Katz, sempre ubriaco e in bolletta, Švejk diventa attendente. Un solerte attendente che procura un catechismo al suo superiore perché ripassi almeno la procedura dell´estrema unzione. Ma Katz (che tiene sul comodino una copia del Decameron) perderà Švejk a carte e dunque il bravo soldato passerà alle dipendenze del tenente Lukáš, un militare di carriera amante del bel vivere e delle belle signore, specie se sposate. Švejk sarà la sua dannazione, ma talvolta anche il suo conforto.
È impossibile dire in breve quel che accade a Švejk, in perenne movimento (spesso in direzione contraria a quella che la logica vorrebbe) per raggiungere il fronte. Non ci arriverà. Il suo destino è la routine militare. Tra gli altri protagonisti eccelle un volontario con ferma annuale che, incaricato di scrivere la storia del battaglione, la annota allegramente in anticipo, descrivendo il modo in cui creperanno i suoi commilitoni carichi di gloria. C´è poi un soldato gigante perennemente affamato che ruba il cibo dappertutto e un sottotenente incazzoso che a tutti recita la formula «Lei non mi conosce…», intendendo dire che presto rivelerà il suo lato cattivo facendo piangere il soldato in questione.
Nella biblioteca ideale di Hašek abbiamo già notato la presenza di Boccaccio. Viene citato anche Rabelais per via della fame pantagruelica di un altro Feldkurat e il don Chisciotte. Riferimenti perfetti: in fondo anche Švejk è un cavaliere avventuroso le cui peripezie sono quasi sempre fondate su un equivoco (non credo che Hašek conoscesse il Bertoldo di Giulio Cesare Croce, ma per qualche via un po´ della sagacia di quel villano astuto è giunta fino a Švejk).
Hašek, morto giovane e d´improvviso, non riuscì a finire il suo capolavoro ed è trascurabile che qualche altro si sia incaricato di concludere quelle avventure. In realtà Švejk è infinito, come vide Brecht che lo riesumò per la Seconda guerra mondiale. È un personaggio che vive anche al di là del libro e persino si trova nei negozi per turisti di Praga sotto forma di burattino in divisa. Un po´ come Pinocchio. Chi ha la fortuna di non averlo mai letto se lo gusti con calma: è una compagnia piacevolissima e allarmante, lo specchio di un mondo grandioso e grottesco da cui, volere o no, discendiamo tutti noi.
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