Da Bergamo a Bruxelles per dire «no» alla distruzione dello stato sociale

PARLANO GLI ATTIVISTI

PARLANO GLI ATTIVISTI

Bergamasca e di sinistra, si può. Roberta è a Bruxelles insieme agli altri attivisti delle «Brigate della solidarietà attiva».
Come ci siete arrivati?
Bruxelles è un appuntamento importante, per dire no al nuovo patto di stabilità e alla distruzione dello stato sociale. Ci arriviamo dopo un anno di lavoro iniziato in Abruzzo, nel dopo terremoto. Lì abbiamo gestito due campi, con una cucina da 1.000 pasti. Abbiamo cercato di fare un lavoro completamente diverso dalla protezione civile, i cui campi erano fortemente militarizzati, con divieto di fare assemblee, volantinare o fare i comitati. Ma nei nostri abbiamo sempre fatto assemblee cercando di far partecipare la gente e ricostruire una quotidianità.
E dopo l’Abruzzo?
Tornando a casa abbiamo dovuto fare i conti con la crisi economica. Con la cucina da campo, siamo andati ad aiutare i presidi operai (solo a Bergamo ci sono stati 60.000 cassintegrati), in fabbriche come la Pigna di Alzano, o a Seriate; Comuni leghisti che hanno lasciato fare alle aziende tutto ciò che volevano.
Qual’è la differenza tra la Caritas e voi?
Cerchiamo di dare una solidarietà tra pari, non calata dall’alto, per stimolare l’autorganizzazione. Se guardo invece alle organizzazioni cattoliche, vedo benissimo come usano il potere dell’«aiuto». Loro creano una dipendenza, mentre noi vogliamo rendere le persone autonome e libere di scegliere per sé, di aiutare a sua volta altri. Cerchiamo di ricostruire una cultura che è andata persa con l’individualismo e l’egoismo.
Si riesce a cambiare qualcosa?
Abbiamo avuto risultati positivi facendo «arancia metalmeccanica», che a Bergamo abbiamo gestito in maniera un po’ diversa. Qui, con 18 banchetti in contemporanea abbiamo coinvolto i lavoratori delle fabbriche in crisi, che si sono impegnati in prima persona. Hanno ripreso a parlare con la gente per strada, a dare i loro volantini e a spiegare quel che sta accadendo. Uno strumento di coesione, è servita a creare una cassa di resistenza, certo ancora insufficiente, ma in controtendenza.
Siete andati anche al Sud?
A Nardò, come associazione (una struttura formale definita durante l’inverno), che ha funzione di coordinamento. Le culture politiche sono anche diverse (dagli anarchici a Rifondazione, alla «curva» dello stadio); ma il dato comune è la voglia di «fare». Era un salto, passare dal tema del lavoro a quello dell’immigrazione attraverso il lavoro. Tutti facciamo molte manifestazioni antirazziste sui nostri territori, ma spesso si concepisce l’antirazzismo solo come diritti umani generici. Mentre è necessario approcciare il problema dell’immigrazione sul canale per cui vengono in Italia: ossia il lavoro e i diritti del lavoro. A Nardò ci siamo trovati in mezzo a 450 braccianti, insieme a un’associazione territoriale. Abbiamo messo su un campo stabile con 30 tende, sportelli legali e servizi di accoglienza. Puntavamo infatti a far emergere il lavoro nero. Fino all’altranno emergevano al massimo 10 contratti, quest’anno ne sono stati fatti quasi 200.
Un lavoro da sindacato…
Sì. In altri territori forse non saremmo riusciti a fare altrettanto. Lì c’era comunque un tavolo, un assessore favorevole all’esperimento, uno sportello dell’Asl… Anche la polizia, in quel caso, ha fatto i controlli «sui produttori», dove si lavorava, non nel campo dove si dormiva. Gli immigrati sono molto consapevoli dei propri diritti, ma anche dei rapporti di forza. A volte sembra di ripartire dagli anni 20. Ora c’è l’idea di rifare una «lega dei braccianti», con dentro anche i migranti, per arrivare alla scadenza di Teano. E poi ci rivedremo a Roma per il 16 ottobre con la Fiom.

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