le carceri sono e permangono luoghi in cui regnano regole non scritte e regolamenti ombra. In cui facilmente si muore suicidi
Il nuovo regolamento carcerario è senz’altro una conquista. Del buon senso, innanzitutto. Poi del senso di umanità, e di tante altre buone cose e validi principi.
È la fotografia di un carcere decisamente diverso di quello regolamentato in precedenza, ormai un quarto di secolo fa. Un carcere pieno di malati e di immigrati, di tossicodipendenti e di sieropositivi.
Quello che è rimasto eguale è la “categoria” generale in cui si inscrive la popolazione detenuta del 2000 e del 1976: quella dei “poveracci”, delle scorie sociali che si vogliono nascondere sotto il tappeto.
Quello che rischia di rimanere eguale nel futuro è l’inapplicazione delle parti positive del nuovo regolamento (e non sono poche: grazie al lavoro di Alessandro Margara, che lo ha promosso; del sottosegretario Corleone che l’ha tenacemente voluto; delle associazioni e del volontariato che hanno proposto integrazioni e nuovi spunti).
Perché il carcere è e permane un luogo in cui regnano regole non scritte e regolamenti ombra. In cui facilmente si muore suicidi, reclusi ma anche agenti, come da ultimo di nuovo nel carcere di Torino. In cui si continua a morire per AIDS o malattie non curate adeguatamente; in cui continuano a essere denunciate tensioni e pestaggi. Senza che nulla si sappia o trapeli. Non è accademia: è la vicenda, ad esempio, di Salvatore Quattrocchi, come abbiamo scoperto a Ferragosto nel carcere di Opera, nel corso delle iniziative di solidarietà da noi promosse quest’estate, a Parlamento chiuso e amnistia cestinata. Malato di Aids, per due volte gli era stata negata la scarcerazione. Nonostante una forte emorragia non era stato neppure ricoverato, dopo due giorni è morto. Eppure, esiste una legge (che è qualcosa di più di un regolamento) che dispone la scarcerazione dei malati gravi.
Il nuovo regolamento è dunque un’importante precondizione e premessa per rendere più civili le carceri. Molto di più e altro rimarrà da fare per umanizzarle e per applicare (e rendere consone le strutture, preparati gli operatori, sensibilizzate le singole direzioni) le nuove norme e mandare in soffitta quelle vecchie. A cominciare da quelle non scritte, che consentono l’arbitrio e premiano l’illegalità, in base a cui troppo spesso nelle prigioni italiane i diritti dei reclusi sono eventuali e inesigibili, mentre i doveri e le sanzioni sono certe e inevitabili.
Per far sì che i nuovi diritti non rimangano scritti solo sulla carta (e magari con inchiostro simpatico), si potrebbe cominciare con una piccola innovazione: pubblicare il testo nelle diverse lingue che ora popolano le prigioni italiane e distribuirlo ai reclusi. Perché conoscere le normative è il primo passo per rispettarle e farle rispettare. In questo caso, ancor prima viene la necessità di rispettare le persone, gli uomini e le donne che vivono in carcere. O che ci muoiono, come Totò Quattrocchi.
Per parte nostra, come “cartello” di associazioni e di società civile che hanno promosso le iniziative di quest’estate a sostegno di misure di clemenza e del “piano Marshall”, ci impegniamo a fare la nostra parte perché questa nuova “Carta dei diritti e dei doveri” non rimanga sulla carta, ma venga veramente e correttamente applicata
il manifesto, 7 settembre 2000
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