Banalità del bene. Ha tredici anni quando il papà , Otto, le regala un quaderno. Ne ha quindici quando muore nel campo di concentramento di Bergen-Belsen. Ora, per la prima volta, la Fondazione che a quella ragazzina è intitolata ha “tradotto” quanto su quelle pagine riuscì a raccontare in una delle forme preferite dai suoi coetanei di oggi: il fumetto. Prima ancora che ebrea, perseguitata, vittima, è una ragazza della sua età , non un super eroe. È la sua normalità che commuove
Banalità del bene. Ha tredici anni quando il papà , Otto, le regala un quaderno. Ne ha quindici quando muore nel campo di concentramento di Bergen-Belsen. Ora, per la prima volta, la Fondazione che a quella ragazzina è intitolata ha “tradotto” quanto su quelle pagine riuscì a raccontare in una delle forme preferite dai suoi coetanei di oggi: il fumetto. Prima ancora che ebrea, perseguitata, vittima, è una ragazza della sua età , non un super eroe. È la sua normalità che commuove
Prima di leggerla, Anna Frank l´ho vista al cinema. Era la fine degli anni Cinquanta. Avevo dodici anni. Mi ero innamorato degli occhioni da cerbiatta di Millie Perkins, nella parte di Anna. Poi, molto dopo, ho riflettuto che la vera Anna non somigliava affatto a quell´attrice. Fosse stata mia compagna di classe forse l´avrei ignorata. O forse me ne sarei innamorato lo stesso perché scriveva bene. Nelle tavole di Sid Jacobson ed Ernie Colon assomiglia invece alle foto che ho di mia mamma ragazzina.
Qual è la più “autentica”? Quella del Diario, certo. Indipendentemente dal se e quanto sia stato “edito” da Papà Otto. Ma quella del film e quella del fumetto le somigliano in alcuni tratti essenziali, senza di cui non ci sarebbe Anna Frank. Tutte e tre sono ragazze estroverse, delle gran chiacchierone, gli piace comunicare, mettersi in mostra, far scena. Sono fatte per dire qualcosa al prossimo, al pubblico. Non sono fatte per rinchiudersi in se stesse, tenere il muso, fare il broncio ai propri tempi, come direbbe Alfred Musil, e ai propri simili.
Quella del film recita magari un po´ più delle altre, ma tutte e tre se la caverebbero benissimo sulla scena della vita e della sua rappresentazione. La vera Anna, ce lo ricorda ripetutamente il fumetto, aveva le idee chiare, voleva fare la giornalista o la scrittrice, insomma avere un pubblico. Non fosse morta quindicenne a Bergen-Belsen ci sarebbe certamente riuscita. Ma ciò che più commuove in Anna Frank, ciò che ne ha fatto un simbolo così forte, non è forse tanto la sua prigionia forzata nella soffitta del Prinsengrath ad Amsterdam, o la sua fine tragica, non è nemmeno la sua esuberanza vitale, quanto la sua “normalità” di adolescente. Prima ancora che ebrea, perseguitata, vittima, è una ragazza della sua età. Non un super-eroe. Una normale adolescente. Ed è proprio in fatto di normalità che l´Anna di questo fumetto non è seconda a nessuno, forse nemmeno all´Anna del Diario.
Vedo già qualcuno che arriccia il naso. Anche se il libro ha l´imprimatur dell´Anna Frank Haus. Come, Anna Frank banalizzata in un fumetto! Era già successo quando Otto Frank aveva autorizzato la versione teatrale di Frances Goodrich e Albert Hackett, quella da cui poi fu tratto il film girato a Hollywood. Meyer Levin, lo scrittore che aveva aiutato Otto a pubblicare il Diario in America, era rimasto scandalizzato dalla hollywoodizzazione di Anna. Aveva persino accusato l´amico Otto di aver deliberatamente messo in sordina l´ebraicità di sua figlia per non “disturbare” il pubblico americano. La polemica durò decenni, sfociò addirittura in una causa in tribunale. In effetti, nel lavoro teatrale la parola “ebreo” non viene mai pronunciata, l´unico riferimento è una canzone di Hanukah cantata a Natale. Nella famiglia ebraica in cui sono nato, di ebraico non si cantava nulla.
Cinema e fumetto sono due forme di letteratura tutt´altro che figlie di un dio minore. Superman, Batman, Captain America e gli altri supereroi del fumetto combattevano i nazisti da ben prima dell´Olocausto con la stessa efficacia di Chaplin Grande dittatore e Humphrey Bogart sullo schermo. C´è persino chi, per spiegare l´origine ebraica di quasi tutti i grandi disegnatori di comics ha sostenuto che perpetuerebbero il ruolo degli «scribi, antica e riverita professione nell´ebraismo». Theodor Wiesegrund Adorno sentenziando che «dopo Auschwitz scrivere poesia è barbarie» non si riferiva solo ai fumetti. Ma è stato smentito anche dai fumetti (recentemente ne è stato pubblicato uno proprio su Adorno, Horkheimer e la Scuola di Francoforte).
Quando nel 1991 Maus fu incluso nella lista dei bestseller del New York Times, Art Speigelman obiettò solo per il fatto che figurava nella categoria “fiction”: «Non vorrei che fiction venisse interpretato nel senso che tratto di cose d´invenzione, non potreste per favore introdurre una categoria speciale “topi/non fiction”?». Per enfatizzare che parla di cose vere, non inventate, Will Eisner introduce spesso riproduzioni di pagine di giornale nelle sue vignette. Alla stessa tecnica ricorrono i disegnatori di questo Anna Frank.
Capisco meno perché il volume venga raccomandato solo ai ragazzi di più di quattordici anni. La proposta avanzata un paio d´anni fa dal presidente Sarkozy di imporre a ciascun alunno di quinta elementare di coltivare ad personam la memoria di uno degli undicimila bambini ebrei vittime della Shoah aveva suscitato un mare di polemiche, tanto che poi non se n´è fatto nulla. Superficiale, strumentale, propagandistica, s´era detto. «Oscena» aveva addirittura tuonato il filosofo Pascal Bruckner. Speriamo non abbiano avuto sentore dell´interrogazione recentemente presentata dal deputato leghista Paolo Grimoldi al ministro Gelmini, contro la lettura del Diario di Anna Frank nelle scuole, con l´argomento che: «Vi è un passo nel quale Anna Frank descrive in modo minuzioso le proprie parti intime e la descrizione è talmente dettagliata da suscitare turbamento in bambini delle elementari».
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